Ieri una telefonata mi ha portato prepotentemente a chiedermi se la luce prevale sul buio. Sono due anni che so che ci sono 579 bambini, che vivono in Perù e lavorano aiutando le loro famiglie, ma metà del loro tempo lo passano in una scuola che qualcuno ha pensato per loro. Sono le scuole speciali dei NATs, bambini e giovani adolescenti lavoratori. Poiché lavoro per una ong che si occupa di loro sono diventati i "miei bambini". Sono due anni che quando vado in ufficio, e devo compilare lunghi formulari, studiare e studiare procedure, penso ai loro sorrisi. E non vedo l’ora di partire per vederli, anche se il viaggio è lungo e stancante. Ma in tre minuti di conversazione telefonica, in cui Pilar, la mia giovane collega peruviana, mi spiegava che ad agosto sono state chiuse le scuole per l’influenza suina che si stava diffondendo in un Paese che non aveva medicine, mi sono chiesta trecento volte se quello che io faccio abbia un senso. Mi sono chiesta come conciliare i miei sogni con una situazione in cui i bambini di una piccola scuola a Puno, a 3.800 metri , con un freddo che ha toccato i -18 C, si sono ammalati… Mi sono chiesta se ci sono gli spazi per i sogni quando 14 piccoli sono “volati in cielo” a causa di una malattia che non potevano curare, mentre noi stiamo aspettando i vaccini, sicuri nelle nostre calde case. Mi sono domandata come attaccare tanta ingiustizia, nei tre minuti di conversazione che mi univano a quella realtà. E poi mi sono tornate alla mente le parole di “Tre secondi”, una canzone che chi frequenta l’Arsenale della Pace conosce molto bene: “Lassù, c’è chi lo abbraccerà… Gli renderà la vita che non ha avuto qui… tra noi!”. Beh adesso torno al mio lavoro, dopo questi tre minuti di pausa, unendomi a quel caldo abbraccio.
Beatrice Gemma
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