Quaresima e essere cristiani

Publish date 13-03-2010

by Giuseppe Pollano

di Giuseppe Pollano - La quaresima è un cammino per rafforzare la nostra identità di cristiani e far nostri i sentimenti e le scelte di Gesù.

Molducci Zelo, CrocifissoIl senso profondo della quaresima

Nel tempo di quaresima non stiamo imitando Gesù nel deserto, stiamo preparandoci al mistero pasquale. E questo lo dobbiamo capire con molta forza, proprio perché i misteri di Cristo devono realizzarsi anche in noi. Insomma, Gesù ci sta chiedendo se lo stiamo capendo, se siamo d’accordo a seguirlo in questi misteri che sono costati a lui la vita. Ma dobbiamo avere fiducia in Gesù e nel suo costante sostegno. In questa misura siamo cristiani.
Dobbiamo riconoscere che la quaresima, nei nostri tempi, è vissuta in modo debole. Il Signore anche a noi potrebbe dire quello che Isaia, al cap. 1, dice al popolo d’Israele rimproverando i suoi gesti di penitenza che sono soltanto apparenza. Chiamereste quaresima cambiare i paramenti e vestirvi di viola? Questo chiamereste quaresima? Chiamereste quaresima leggere una pagina in più della Bibbia, cantare una canzone diversa? È questo che chiamereste quaresima? È un po’ poco! È un po’ di più se quaresima è non fumare una sigaretta, mortificarmi. Queste cose ci vogliono, sia ben chiaro, perché la croce non è un sogno, chiede degli scatti interiori e dei sacrifici. Ma con tutto ciò la quaresima, prima di essere quel che faccio io, è accettare Gesù Cristo nel suo andare a salvare la gente. Ed è qui che noi siamo stimolati, perché se a Gesù accadde alla fine la croce, anche a noi dovrà accadere qualche cosa, un ulteriore discepolato. Vediamo allora alcune cose che dovrebbero accaderci.


La questione posta da Gesù in Mc 9,29

Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera.
Dobbiamo diventare più discepoli. Anche noi come Gesù facciamo del bene, sappiamo dire la verità. Dunque al livello del ‘dare’ e del ‘dire’, più o meno, tanto o poco, ci siamo. Credo il Sermig possa affermarlo con umile sincerità. Ma Gesù stesso ha preso coscienza che il dire e il dare non bastavano.
Allora riportiamoci all’episodio raccontato da Marco dove Gesù emise quel lamento: “Fino a quando dovrò sopportarvi?”. Egli non c’era: arriva e trova che i suoi e un mucchio d’altra gente che sta discutendo perché i discepoli, pur avendocela messa tutta, non sono riusciti a guarire un giovane malato che un padre aveva portato. Dopo che Gesù lo ha guarito, i discepoli gli chiedono perché lui ci è riuscito e loro no. Ed ecco la celeberrima risposta di Gesù (Mc 9,28), che è diventata un paradigma nella vita della Chiesa. C’è del male nel mondo, dietro al quale lavorano i demoni, che non si esorcizza se non con la forza dell’implorazione. Non bastano le opere buone e neppure la proclamazione del vangelo. Naturalmente ci vogliono, bisogna continuare a farle, ma non bastano. Il prete che dedica la sua vita per i poveri, che si dà tutto alle opere buone, che annuncia, ma ritiene che il suo ministero si concluda così e non trovi il tempo per stare dinanzi a Dio a pregare e a implorare, costui, con tutta la sua buona volontà, è un prete sbagliato. Gli sfuggono i gradini più alti del modo di salvare gli uomini. Perché appunto ci sono i demoni da scacciare.
Il mistero del male non consiste solo nei nostri difetti, nei nostri piccoli squilibri; c’è di più. La grande rivelazione apocalittica ci dice che sulla scena non ci sono soltanto l’uomo e Dio, ma l’uomo, Dio e Satana. Se facciamo uscire Satana dal palcoscenico, le cose diventano molto più semplici, ma non ci spieghiamo più il male del mondo, e soprattutto non esorcizziamo colui che lo produce. Naturalmente di fronte al demonio non dobbiamo esagerare, vederlo dappertutto, bisogna essere molto equilibrati. Ma l’equilibrio consiste appunto nel non esagerare né in difetto, né in eccesso. L’unica forza è la preghiera perché è Dio che caccia il demonio e l’unica maniera di ottenere questo effetto è chiederglielo insistentemente, perché è ciò che si desidera proprio. Allora la preghiera diventa la fortissima maniera di esorcizzare il male.
Gesù, che viveva di preghiera, di intima unione con il Padre, ha esorcizzato il mondo pregando.
Siccome esorcizzare non è un’opera (nell’opera ci mettiamo le mani, la fatica, il sudore, l’entusiasmo, la creatività) né una parola (nella parola ci mettiamo ancora del nostro), ma è soltanto un’umile supplica, noi dobbiamo stare attenti che appunto non ci sfugga, che ce ne dimentichiamo, come di una cosa un po’ invisibile e impalpabile che si può fare, ma anche non fare. In fondo chi ce la chiede? Invece no, perché la supplica è anche potenza, tutta da usare, però è necessario essere umili, in ginocchio, per riconoscere che l’onnipotenza è di Dio. Più si va nelle cose di Dio, più si sale nell’invisibile, più ci vuole l’onnipotenza, e per esorcizzare ci vuole proprio l’onnipotenza, che è solo di Dio.
Nel tempo della quaresima siamo pertanto chiamati a pregare un po’ meno per noi e affidarsi a Dio, offrendo la nostra preghiera perché il mondo sia esorcizzato.


Disegno di Cristo crocifisso che attira la follaLa questione posta da Gesù in Gv 12,32

Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me.
La croce ha la potenza di una attrazione enorme. Ma qual è il cuore con cui Gesù fa trasparire questa profezia? Il Signore sicuramente ha vissuto la passione con il grande desiderio di salvarci, ma anche con grande angoscia e tormento interiore a vivere questa sua ‘ora’ per salvarci; angoscia ed amore per il Padre, per se stesso, per noi.
Gesù perciò non va entusiasta verso la croce: è triste, col cuore pieno di terrore, ma “Padre, se vuoi allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42). Alla disobbedienza di Adamo ecco che si contrappone l’obbedienza di Gesù, che ci ha redenti, pagati. Al Padre Gesù offre il suo amore, la sua obbedienza, in una situazione molto più drammatica di quando il Padre gli aveva chiesto di convertirci.

Quando non amo Dio e lo offendo, il Signore mi offre il rimedio: io ti attirerò, se inciampi ti aiuterò a risollevarti, se cadrai gravemente io mi chinerò su di te e ti farò risorgere. Torna il profeta Osea che ci presenta il Dio che ci attira (Os 2,16), che non può fare a meno di noi, proprio come chi ama molto che prende e trae a sé l’amato. Gesù d’altra parte ci dice che nessuno si avvicina a lui se il Padre non l’attira (Gv 6,44) e lo stesso Gesù dice che quando sarà elevato attirerà tutti a sé; attraverso la sua redenzione e il suo sangue noi saremo sempre presi dalla misericordia. È un fatto continuo: quando non siamo buoni, quando abbiamo qualcosa da rimproverarci, non ci sentiamo a nostro agio, se stiamo attenti percepiamo che qualche cosa va fatto, come se fossimo in una corrente che ci aspira senza forzarci, ma che non ci lascia in pace. È Dio che ci sta attirando. È un grande dono di Dio che ci porta delicatamente all’abbraccio della misericordia. Questo dunque è il cammino cristiano in cui si colloca molto bene il cammino penitenziale quaresimale e il sacramento della riconciliazione, l'incontro con il Signore che perdona. Si è dentro la divina misericordia.


La questione posta a noi da San Paolo in Col 1,24

Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo, che è la Chiesa.
Con “quel che manca ai patimenti di Cristo” Paolo indica la continuità della passione per la redenzione di noi sua Chiesa e del mondo intero, che è una coralità di amore e di appassionata adesione.
Cosa manca alla passione di Cristo? Nulla. Ma siccome Cristo non è un individuo solo (Christus solus) ma siamo tutti noi (Christus totus), allora gli manca che la sua passione sia accettata. Se io vivo da egoista, se mi ribello alla sofferenza, la passione non mi tocca e allora Christus totus sente che gli manco, siccome si aspettava da me che lo capissi e con lui accettassi di soffrire per il bene del mondo. Chi soffre bene invece colma questa misura di Cristo. Noi siamo Cristo e portiamo in noi le stigmate preziosissime della sua sofferenza, che sono le cose che salvano il mondo.

Sergio Michilini, Cristo gialloQuando diciamo che siamo figli nel Figlio, non raccontiamo una metafora, perché è proprio vero. D’altra parte quando io soffrendo metto la mia sofferenza nella sua, realizzo un altro fenomeno di identificazione e ho il diritto di dire al Padre che gli offro le stigmate di Cristo, perché in quel momento sono suo figlio Cristo che soffre. Non è una esagerazione devota, sto completando quello che manca alla passione di Cristo.

L’incontro assiduo e umile con la Parola è ciò che ci tiene vivi, il confronto con essa ci conserva la memoria della terribilità del peccato come “mistero della iniquità che è in atto” (2 Ts 2,7). La Parola ci esorta, ci porta a vincere questo mistero con preghiera e penitenza ispirate dall’amore di Dio. Non c’è altra strada se vogliamo essere giusti con Dio e capire che la sofferenza buona di cristiano non è soltanto umana, ma completa ciò che manca ai patimenti di Cristo, ripara.
Quindi, in questo tempo di quaresima, siamo chiamati a non lamentarci, ma a dire grazie e a sfruttare molto le sofferenze. Il sacrificio volontario è pregevole, ma è molto meno che accettare e offrire la sofferenza, anche le più piccole sofferenze quotidiane. Perciò non dobbiamo essere insofferenti. La sofferenza offerta a Cristo diventa parte della sua passione redentrice. La sofferenza accettata e offerta con umiltà è pazienza che cresce, è il compiere la volontà di Dio.


Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore

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