Natale: una triplice sfida

Publish date 24-12-2007

by Giuseppe Pollano

 

Non ci si può collocare da spettatori nella scena del Vangelo di Luca (2,1-20), non si può entrare in questa scena senza accettarne la sfida profonda che ci viene da Dio attraverso questo piccolo bambino.

di Giuseppe Pollano

JHS - Jesus Hominum Salvator LA PRIMA SFIDA
La prima sfida sta nel semplice e grandissimo nome di salvatore: “Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato un salvatore”. Perché è una sfida questo nome, per noi tanto famigliare? Perché, come tutti ben sappiamo, stiamo vivendo in un’epoca culturale dove non è affatto scontato che ci sia bisogno di un salvatore. Anzi, per una buona parte di questa cultura il salvatore è un’utopia o un essere superfluo. La sfida ci riguarda da vicino, perché noi siamo coloro che credono nel salvatore, che affermano che ci vuole un salvatore. Intendiamoci, la nostra cultura di salvezza se ne intende, e ringraziamo Dio per la salvezza che porta la medicina, l’ecologia, etc. Ma quando si tratta di dire all’uomo di oggi che ha bisogno di essere moralmente e spiritualmente salvato, emerge lo scetticismo. Invece abbiamo proprio bisogno di questa salvezza. L’efficace tratto di Paolo a Tito
lo esprime in poche parole: “È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone” (Tt 2,11-14). Quindi salvarci e essere salvati comporta la capacità di rinnegare l’empietà e i desideri mondani, che sono due maniere di vivere o, meglio, due aspetti di una maniera di vivere.

Oggi potremmo chiamare l’empietà semplicemente ateismo: un Dio di cui non c’è bisogno. Dunque colui che non è pio, nel senso latino della pietas, non ha bisogno, per sentirsi uomo, di vivere il rapporto con Dio come rapporto che fonda la personalità. L’empietà esiste e non è detto che non possa anche un po’ contaminarci, siamo pur figli di questa cultura.
Per non parlare dei desideri mondani, che nascono dall’uomo naturale così come è e che oggi sono chiaramente scatenati. Si dice che viviamo in una cultura del desiderio, sempre pronta ad inventarne altri. E vivere il desiderio è mortale, perché non porta altro che alla propria soddisfazione e non dà senso ai misteri dell’esistenza: basti pensare al desiderio di avere, di godere, di apparire, di riuscire.
Empietà e desideri mondani producono continuamente ingiustizie e sofferenze. La sfida è: volete essere salvati? No, stiamo vivendo come se Dio non ci fosse, oppure sì, abbiamo l’urgente bisogno di un salvatore. Se siamo qui è proprio per dire al Signore che abbiamo bisogno di lui.
LA SECONDA SFIDA
La seconda sfida ci viene dal fatto che questo salvatore è comparso come un bambino avvolto in fasce in una mangiatoia. Perché è una sfida? Perché ha voluto comparire in mezzo a noi attraverso l’esperienza più possessiva da parte nostra, quella della nascita di un figlio. Questo bambino è uscito dal grembo di una madre che l’ha fatto crescere in sé con trepidante attesa e con grandissimo amore. Un salvatore che dunque sceglie la strada che lo rende più nostro e che ci fa pertanto capire qual è il legame che vuole stabilire con noi: un legame di profondissimo amore con la tenerezza e con la cura di una famiglia
Cesare Augusto, l’imperatore di quel momento, non ha certamente bisogno di amare i suoi sudditi né cerca di essere amato, gli basta intimorirli e servirsene, e questa è una regola del gioco che non cambia mai nei rapporti umani. Il salvatore invece viene in maniera molto persuasiva: che cosa c’è di più piccolo, di più indifeso, di più amabile e amante di un piccolissimo bambino che forse rimpiange ancora il grembo della mamma e adesso è in mezzo a noi? Questo ci impegna molto, perché dire amore non è dire un’idea che puoi accettare o no, è accettare una forza che ti prende, che ti fa vivere, che ti trasforma. Il salvatore di cui abbiamo bisogno è passato proprio per questa strada e continua a passarvi. Il Natale è una grande festività di amore dimostrato e da noi accettato, un Dio che preme sul nostro cuore per entrarci. Beati noi se lo capiamo sempre meglio!
LA TERZA SFIDA
La terza sfida è che questo piccolo bimbo, questo salvatore, sceglie decisamente gli ultimi. Cesare Augusto non sceglie gli ultimi, ne ha sin che ne vuole, è padrone di migliaia di schiavi, ma certamente non li inviterebbe a pranzo. Invece questo piccolo bimbo, prodigiosamente grande, immediatamente ama i socialmente ultimi, gli insignificanti, perché sia ben chiara la sua intenzione profonda: inserirsi nel profondo del problema umano, inoltrarsi nella miseria umana per salvare. Noi stiamo rivivendo questo stupendo evento di fronte al quale occorre ancor sempre saperci stupire, perché non ci si può abituare mai al mistero natalizio. Tocca a noi, popolo puro che già appartiene a Gesù Cristo, rivivere questa esperienza, impegnarsi sempre meglio. Il Natale che passa e viene lasciato alle spalle è solo una sacra rappresentazione. Non serve a nulla.
I ciechi acquistano la vista,
gli zoppi camminano,
i lebbrosi sono guariti, i sordi odono, i morti risuscitano;
il Vangelo viene proclamato ai poveri (Mt 11,5)
O il Natale è un incontro che ci impegna, o tanto vale non celebrarlo. Di fronte a questo salvatore che si presenta ripetendomi “io sono venuto a salvarti”, io accetto con gratitudine di essere salvato, perché ho bisogno che Gesù mi salvi di più. Non sono ancora tutto salvato, di Dio qualche volta ho dubitato, a Dio qualche volta mi ribello, molte volte Dio lo dimentico e non poche volte lo tradisco. “E tu, Signore, che sei buono e mi conosci così bene, mi rioffri la salvezza. Sì, salvami di più dalla mia empietà e dai miei desideri mondani che mi travagliano in mille modi”. Accettiamo questo dono del Signore, perché la volontà di Dio è la nostra santificazione (cfr 1 Tes 4,3), e allora la vita diventa un fremito, diventa una risposta che ama e vuol fare contento il Signore.

Di fronte a questo bambino venuto nel grembo di una madre che ci chiede di possederci di più ed essere più posseduto da noi - poiché non posso certamente dire che quanto a riceversi possedersi amarsi tra me e il Signore tutto è risolto - gli dico: “Signore, tu puoi possedermi meglio, puoi farmi pensare di più come pensi tu, puoi farmi sentire di più come senti tu, puoi trasformarmi di più nella misteriosa metamorfosi che è il nutrimento eucaristico perché io possa amarti meglio”. Pensiamo infatti all’eucaristia: che cosa è se non il fatto che io ti ricevo, Signore, e tu mi ricevi? “E allora, sì, questo Natale tu sarai più mio e io più te, che hai detto che chi mangia la tua carne e beve il tuo sangue dimora in te e tu in lui (cfr Gv 6,56)”.

Di fronte a questo bimbo salvatore che ha scelto gli ultimi, io questa sera gli dico: “Tu dimorerai più in me e io in te, Signore; di conseguenza ti seguirò più volentieri e con più audacia nel tuo scegliere decisamente gli ultimi”. Noi siamo chiamati a continuare l’opera del Signore ed egli ci trascina tra i perenni pastori di questo mondo, ci porta con lui in mezzo ai miseri, ci inoltra dentro la miseria degli altri a portare salvezza. Il cristiano è del tutto coinvolto. Resiste all’invito del Signore il nostro egoismo, la nostra paura di impegnarci troppo, di sporcarci un po’. Non bisogna. “Porrò meno resistenza a te, Signore, ti prometto che accoglierò con il cuore più aperto e pronto le occasioni che tu mi farai comparire sulla strada. Non volterò mai la faccia da un’altra parte”.

Questo è crescere, poco per volta, di Natale in Natale. Poiché è questa la strada del regno, non abbiamo nessuna possibilità più grande. Glielo diciamo col cuore e ci mettiamo alla scuola di Maria: il vangelo ci racconta che in tutto quel giro di avvenimenti, di voci, di canti, di luci lei taceva e custodiva nel cuore il segreto di suo figlio. Ci rivolgiamo a lei e le diciamo: “Insegnaci a guardare meglio il tuo bambino nella mangiatoria, a capirlo di più”. E allora sarà un Natale fecondo.

Giuseppe Pollano
(dall’omelia del 25 dicembre 2004 all’Arsenale della Pace)


Vedi il dossier:
Mons. Giuseppe Pollano - riflessioni inedite per la Fraternità del Sermig

 

 

 

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