Pace armata
Publish date 12-03-2018
a cura della redazione - Riproponiamo un estratto dell'intervista di Ernesto Olivero a Primo Levi, pubblicata sul n. 8 di Progetto nel 1980. L’autore di Se questo è un uomo, deportato ad Auschwitz, ha fatto della sofferenza vissuta una opportunità per ricercare valori essenziali. Il rapporto pace e guerra, fabbriche di armi e lavoro, viene visto con una sfumatura di speranza.
Pace e guerra, oggi. Lei crede nella pace armata. Perché?
Sì, è una speranza come quella dell’età dell’oro, una speranza astratta. Forse non è così insensata questa speranza in una pace armata, perché almeno dal punto di vista eurocentrico, è la prima volta che l’Europa da secoli passa 35 anni senza una guerra. Potrebbe darsi che l’unica speranza concessa a noi miserabili sia quella di una minaccia reciproca; è molto triste, ma può darsi sia così, se vogliamo essere sperimentali.
È possibile che avvenga una guerra senza che la gente lo voglia?
È possibile, in quanto in ogni società umana oggi esistente, esiste un centro di potere, che può essere assoluto, piramidale come nei regimi totalitari, o più modesto e più mascherato come nei regimi democratici: tuttavia il potere esiste e, disponendo di mezzi coercitivi, può imporre una guerra a chi non la vuole. È probabile che nessun soldato abbia mai voluto fare la guerra, e non è questione di leggere soltanto dei libri di questo secolo sulla prima e grande guerra mondiale per vedere questo fatto: anche Orazio e Tibullo la guerra l’hanno fatta, ma non piaceva loro. Orazio quasi si vantava di aver «gettato lo scudo». Credo che nessun soldato abbia mai fatto la guerra volentieri, ma può esservi costretto con la forza, oppure più sottilmente con la propaganda, e la propaganda non è mai stata potente come oggi.
E come ci si può difendere?
Forse la domanda va corretta in: ci si può difendere? Ebbene io credo di sì, e lo dimostrano gli obiettori di coscienza, religiosi o laici che siano. È una difesa parziale.
Però sono una minoranza. Come è possibile farlo capire alla maggioranza della gente?
Io penso sia questione di coraggio e di dire «no». Forse è più facile dire di no alla violenza che dire di no all’astuzia perché l’astuzia ti corrompe, ti penetra dentro. Io sono nato in tempo fascista, fascista non sono stato mai. Però ricordo molto bene come fosse difficile uscire dall’atmosfera del fascismo, senza un apporto dal di fuori. Lo stesso penso che avvenga su per giù in Unione Sovietica oggi, dove l’informazione viene da una fonte sola, e dove perciò è impossibile pretendere dall’individuo (a cui non viene data un’altra informazione, un’altra disciplina se non quella unica dello Stato) che sia dissidente.
Armi e uomini. Il lavoro, l’impegno professionale, quello della Chiave a stella, del Sistema periodico, hanno ancora il significato profondo che lei descrive, mentre altri uomini approntano in continuazione strumenti di morte di terrificante portata? Il lavoro ben eseguito, il lavoro di quegli altri altrettanto ben eseguito, non sono il segno della follia umana incapace di usare le proprie energie per crescere?
Ah certo! Io non ho voluto dire nei miei libri che basta che il lavoro sia ben eseguito per portare la salvezza: è condizione necessaria quella che il lavoro sia ben eseguito, ma non sufficiente. Si può benissimo arrivare a dire che sarebbe meglio che quel certo lavoro fosse eseguito male. Il lavoro di preparare le armi. Io considero un lavoro anomalo, addirittura un non lavoro, un lavoro cui si è costretti: non ha molto a che fare con il lavoro che compare nel primo capitolo della Genesi, del sudore della fronte: io pensavo a questo. La mia morale, in questi miei ultimi libri, va circoscritta a quel lavoro che non è distruttivo ma creativo.
Alcune guerre sono scoppiate con dei trucchi per far comprare armi!
Mi pare una forma di malvagità che mi supera perché non avevo mai pensato a questa possibilità. È una forma di malvagità così sottile che non ci sarei mai arrivato: tollerare la guerra è malvagio, ma provocarla mi pare ancora più malvagio.
Nel suo libro Se questo è un uomo si legge: «Distruggere un uomo è difficile, quasi quanto crearlo; non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi». Oggi dove vede nel mondo un impegno di distruzione dell’uomo, dove stanno distruggendo l’uomo oggi?
Oserei dire che così non avviene in nessun luogo a me noto, non credo neppure negli angoli più scuri della terra. Avvengono cose orrende, anche la morte per fame è una cosa orrenda, può cioè avvenire che si lasci deperire l’uomo; ma che si intenda farlo deperire, deumanizzarlo riguardo alla sua dignità di uomo non credo che avvenga in nessun luogo. Forse si tenta soprattutto là dove ci sono regimi che si avvalgono della tortura, Ma certamente esisteva nella Germania nazista un accoppiamento tra volontà malvagia e perfezione tecnica che non ravviso in nessun altro luogo e quindi credo e spero anche che non si possa ripetere una situazione così totalitaria della cattiva intenzione accompagnata dai mezzi per realizzarla.
Dopo questa sua sofferenza, chi è uomo per lei?
Potrei risponderle in pochi modi. Posso dirle che è uomo chi si ribella all’ingiuria, all’ingiustizia, che è uomo chi non si china davanti agli idoli, chi cammina su due gambe e non ha peli sulla lingua. Nelle ultime pagine di Se questo è un uomo ho scritto alcune cose a proposito: «non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire, per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello di uomo del più rozzo pigmeo e del sadico più atroce... Ecco perché è non umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo». Oggi aggiungerei che non è uomo chi “inventa” la guerra per vendere armi.
Da Progetto n. 8-9, 1980
A cura della redazione
NP FOCUS
foto: Max Ferrero/AGF