Meditando Paolo (3/7)

Publish date 15-09-2011

by Giuseppe Pollano


Il capitolo 8 della lettera ai Romani ci presenta una grande sintesi di tutta la redenzione: lo Spirito che ci afferra, la trasformazione che ci è richiesta, la speranza missionaria ne sono il contenuto. Prima riflessione su “trasformazione: vittoria morale”

di Giuseppe Pollano

TRASFORMAZIONE: VITTORIA MORALE

Nelle riflessioni precedenti abbiamo gustato le parole con cui Paolo ci ha messo in contatto con Dio e con lo Spirito Santo, il quale ci ha garantito un destino la cui bellezza è indescrivibile, tanto che lo speriamo. Ma Paolo, con il suo realismo, ci dice che il nostro destino ad essere santi è offerto non come si offre qualcosa ad un bambino, ma a persone libere, adulte che, quindi, se lo devono conquistare superando ciò che si frappone.


IL DRAMMA DELL’UOMO

Marino Lecchi, Tensione spiritualeQuelli che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. (Rom 8,5)
Paolo si addentra ad esaminare il dramma fondamentale degli uomini, il conflitto tra le cose che finiscono e l’orizzonte che non finisce. Il dramma nasce dal fatto che a noi uomini le cose che finiscono, esempio i fiori, piacciono. Niente di male, le ha fatte Dio, ma se ci piacciono troppo rischiano di diventare le uniche che piacciono e allora quell’orizzonte che non finisce se ne va sempre più lontano, anzi, lo si perde.
Il vero dramma dell’uomo è che questa prospettiva di fuga capita perché scegliamo ciò che è carnale.
Il termine carnale può creare degli equivoci. Non si intende tanto ciò che è proprio del corpo umano e che quindi può portare ai disordini del corpo (impurità, disordine sessuale, etc.), ma il lato più fragile dell’uomo, quello che comincia e poi si dissolve, che non si trattiene. Il termine carne è il simbolo perciò di tutta la finitezza dell’uomo, quello che tu sei. Anche la tua intelligenza ha la sua limitatezza e sei carnale, relativamente ad essa, quando assumi come verità solo ciò che raggiungi con la tua intelligenza. Dunque “carnale” è un termine molto ampio.


LA MORTE: NON STOP MA PASSAGGIO

Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. (Rom 8,6)
Paolo ribadisce con forza che seguire ciò che è carnale – la finitezza - è morte. La nostra persona umana, presa nei suoi aspetti limitati, finisce e la morte è proprio ciò che conclude tutto se si dimentica che l’uomo porta in sé un principio di immortalità che è lo Spirito. Altrove si dice che “l’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (cfr 1Cor 15,26).
Quando tu scegli di vivere secondo la tua finitezza,Fra Angelico, La discesa agli inferi tu scegli di vivere di cose mortali, di considerare la morte come il tuo stop. Se la morte segna la tua fine, da questo momento a quello stop cosa farai tu, che tuttavia porti in te un invincibile e bellissimo desiderio di felicità? Alla felicità l’uomo “carnale” non direbbe mai stop, perché la felicità di per sé invoca il “sempre”, si affanna a trasformare, nei limiti delle sue possibilità, tutto il tempo che lo separa dall’ultimo momento in felicità. È comprensibile questo anelito dell’uomo, di questa povera creatura, ma col fuoco che si ritrova dentro non gli basta questo legno che è l’uomo nella sua finitezza. Se chiudi il tuo orizzonte, se pensi che morte sia sinonimo di fine e distruzione del tuo io, tutto ti può accadere, tutti i disordini della vita, tutte le storture. Oggi siamo in un tempo in cui in effetti tutto questo accade abbastanza.
Paolo fa perno su questo concetto tragico della morte che ha sempre tormentato gli uomini, e proprio di lì parte. Non ci servirebbe Gesù Cristo più di tanto, con tutta la sua bellezza e la sua grandezza, se anche lui fosse rimasto a putrefarsi in un sepolcro. La vita sarebbe tutta un’altra cosa e saremmo anche noi dei disperati.

Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. (Rom 8,7)
Paolo pone una relazione molto stretta tra questo vivere da mortali, quello che si chiama il “mortalismo dell’uomo”, e il peccato, nel senso che hai rimosso Dio.
La nostra epoca è stata anche chiamata da qualcuno l’era del vuoto. E dire che l’abbiamo riempita e continuiamo a riempirla di mille cose, ma rimanendo nel tragico errore di non rendersi conto che se il cielo è vuoto rimane vuoto. Non puoi riempire il cielo con cose: o lo riempi con Dio o rimane vuoto. In questa era del vuoto la morte continua ad esserci, ma è diventata un disagio sotterraneo. Ci sono state epoche in cui la morte non si chiamava stop, ma ‘transitus’. Era molto diverso: c’era un senso di continuità, anzi di compimento giusto, beato e perciò di interpretazione tutta vera di questa vita. Cancellato oggi questo senso del transitus che ti porta a valicare, che farne di questo fenomeno che comunque c’è? Non è un caso che l’ultimo secolo si sia molto fermato a riflettere sulla realtà della morte: sono nate ad esempio la tanatologia (scienza della morte), la sociologia della morte (come la pensano i popoli), la filosofia della morte (come bisogna pensarla), etc. La morte perciò non è una questione medica soltanto, è una profonda questione umana.
Contemporaneamente è cresciuto anche un processo di rimozione graduale: della morte è meglio non parlare. Già qualche secolo fa un grande predicatore diceva che gli uomini cercano di seppellire l’idea della morte come seppelliscono i morti. Ma non si può: prima la morte rimane un concetto generico; poi cominci ad incontrarti con la morte perché è morta una persona di quelle che contano per te, che ti mettono per la prima volta di fronte a questo enorme stupore, a questo scandalo, a questo dolore segnato dal peso di essere irrimediabile; ma poi a poco a poco nella vita ti si avvicina sempre di più questa realtà e passi dal “si muore” al “io morirò”. E poi se ne va anche quel futuro: “io sto morendo”.
Tutto questo non è un discorso per portare tristezza, ma per dire che è il grande disagio di questo nostro tempo, di noi gente occidentale che ha mille cose, che sembra intendersene della vita. Ci siamo difesi e abbiamo creato un orizzonte di cose a cui stiamo dando un grande significato, come valesse la pena di vivere per piccole cose che non contengono in sé nulla che risponda al nostro bisogno immortale di gioia.
Il mistero della morte ci condiziona. Un cristiano, solo perché crede in Gesù risorto, non è che si senta subito un altro: deve lottare contro il senso di morte che abbiamo in noi perché respiriamo l’aria di questo mondo. La psicanalisi ha anche parlato di istinto distruttivo di morte, e dobbiamo riconoscere che dal punto di vista storico questo fenomeno è andato crescendo fino alla morte data: homo mortiferus, un uomo portatore di morte, perché punge, uccide.
Ron Di Cianni, Mai solo
Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. (Rom 8,8)
Abbiamo dunque costruito un nostro orizzonte, una bella costruzione che dissimula la verità, che non lascia guardare oltre e simula uno scenario bello. Questo non piace a Dio. Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Perché lo buttano fuori, perché lo escludono e perciò cadono in quella situazione di morte da cui non si esce.
Solo la nostra fede forte, solo l’amicizia con Gesù risorto, il percepire che lui ci vuole bene e cammina con noi, ci dà forza, ci rende diversi perché Gesù è diverso. Nella misura in cui però il cristiano stesso non riesce ad avere questo rapporto o perché non aiutato o perché la sua preghiera è debole o perché il suo rapporto con Cristo è un po’ teorico, egli soggiace alla tristezza della morte. Una tristezza che trova i suoi modi di esprimersi; ad esempio molte musiche di oggi, qualche volta fatte solo di grida, sono al limite tra il pathos e la tragedia, il terrore e la disperazione. Se si ascolta una musica dal punto di vista di cosa dice consciamente o inconsciamente chi canta – egli stesso forse non lo sa – si sente un enorme lamento.


Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore


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