L’umano nascosto

Publish date 31-08-2009

by Redazione Sermig

Un quotidiano ha titolato: “Eluana, si può staccare la spina”. Il titolo ad effetto si riferisce alla vicenda della donna milanese in coma dal 1992. Una sentenza del tribunale di Milano consente al padre di sospendere il trattamento di idratazione e di alimentazione che da 16 anni la tiene in vita. Questa sentenza riapre il dibattito sull’eutanasia. I commentatori sottolineano da un lato l’impegno della Chiesa in difesa della vita, dall’altro l’opinione di chi si appella alla libertà di poter scegliere se e quando staccare la spina. Si tratta di questioni importanti e complesse che presentano aspetti che vanno approfonditi e decifrati. Ma la scelta per la vita non può essere messa in discussione.
Proponiamo ai nostri lettori un contributo alla riflessione sul dibattito in corso: arriva da un medico che da anni cura pazienti in stato vegetativo. La sua testimonianza, raccolta dal mensile Nuovo Progetto in uno speciale dal titolo: “Vicino a chi soffre”, è ricca di spunti.
Sono vite da spegnere? È una domanda che emerge. Noi, come l’autore dell’articolo, siamo convinti di no!

a cura della redazione

 

L’umano nascosto
Prendersi cura della persona in stato vegetativo è da 12 anni l’impegno quotidiano dell’autore, medico chirurgo specializzato in geriatria, responsabile del relativo reparto presso il Centro Don Orione di Bergamo. Compito inutile? No, finché “umano” non sarà una patente di merito.

di Giovanni Battista Guizzetti

Ho incontrato per la prima volta lo stato vegetativo nel 1996. Allora di questa condizione conoscevo poco o nulla, ma quando è stata chiesta la mia disponibilità ad assumere la responsabilità di un reparto ad essa dedicato ho detto subito di sì.
L’ho fatto perché ero rimasto profondamente colpito da questo strano e per certi versi ancora misterioso modo di continuare a vivere, colpito dalla sua radicalità e dalle domande che pone. L’ho fatto anche perché allora intuivo - oggi ne sono certo - che decidere di prendersene o di non prendersene cura finisce con il tracciare un confine antropologico, superato il quale ogni arbitrio e ogni violenza sull’essere umano debole o svantaggiato potrebbero trovare la loro giustificazione.

Perché nello stato vegetativo, come nell’aborto cosiddetto “terapeutico”, nell’utilizzo degli embrioni per la ricerca, nelle varie tecniche di selezione, nell’eutanasia un nuovo, ma forse non tanto nuovo, scientismo va affermandosi e vuole essere lui a definire chi sia o non sia persona umana (darwinismo sociale), chi sia o no degno di vivere. “Persona-umana” diviene così una sorta di titolo di merito, una patente, da dare o da togliere agli esseri umani, ad un certo punto della loro esistenza, in relazione alla comparsa o alla cessazione di una capacità o di una funzione. Gli anni trascorsi prendendomi cura di questa condizione sono stati per me un’esperienza umana e professionale formidabile.

Umana, perché mi ha insegnato che nella vita non c’è nulla di scontato e di banale, neanche bere un bicchiere d’acqua o alzarsi da una sedia.
Tutte le azioni che compiamo automaticamente, senza neanche pensarci, e a cui normalmente non diamo la minima importanza, possiedono una grandissima valenza esistenziale e relazionale e possono diventare l’obbiettivo di una grande e desiderata conquista.
 
Il letto attrezzato diventa la casa per molte persone
Questa è la cosa più importante che l’incontro con Giovanni, Antonella, Salvatore, Giuseppe, Anna, Lucia, Paola mi ha insegnato: ridare valore e significato al quotidiano. Anche la mia professione di medico è stata profondamente influenzata dall’impatto con lo stato vegetativo. L’Università forma dei professionisti non abituati a confrontarsi con le condizioni di confine, con i malati non guaribili, con i disabili, con la sofferenza e con la morte.

Troppo spesso la guarigione diventa per il medico l’unico scopo e l’unico criterio per stabilire la bontà del suo agire. Ben presto però la realtà ci costringe ad accorgerci di come un tale approccio sia del tutto inadeguato: se scopo del nostro operare fosse semplicemente l’eliminazione del limite, la maggior parte dei nostri atti non avrebbe senso. Questo è assolutamente evidente quando abbiamo di fronte a noi un malato terminale o un grave disabile. Ed è proprio lì, in queste condizioni in cui non c’è spazio per la guarigione, che c’è comunque una grande possibilità di impegnarci per alleviare, accompagnare, consolare, lenire la sofferenza. Chi si prende cura di un soggetto in stato vegetativo non è, non può essere, un ingenuo, è ben cosciente di non poter guarire, ma è altrettanto cosciente che la sua dedizione e la sua competenza professionale possono fare molto in termini di sostegno e di conforto. È davvero sorprendente il tentativo in atto per convincerci che ciò che più temono i malati e i gravi disabili sia l’accanimento terapeutico.

Non è l’accanimento che temono costoro, ma l’abbandono. Temono di essere cioè lasciati soli a vivere una condizione considerata senza dignità, con sintomi non controllati, un’insopportabile sofferenza, con la morte ormai imminente. Temono una pratica medica e una politica assistenziale che, superata la fase della guaribilità, non si facciano più carico di loro, proprio nel momento in cui sussistono sempre più i mezzi per garantire una discreta qualità di vita e un buon livello di integrazione sociale anche quando non sia più possibile guarire, quando la disabilità non è più sanabile o quando la vita è ormai giunta al termine.
 

I dieci anni trascorsi con soggetti in stato vegetativo non hanno fatto altro che accrescere in me la convinzione che nessuna funzione o qualità può aumentare anche solo di un briciolo il valore sostanziale di ogni essere umano, che anzi va tanto più urgentemente riconosciuto quanto maggiore è la condizione di debolezza in cui si trova. Questo valore è strutturale, è proprio di ognuno di noi e deriva semplicemente dalla nostra appartenenza alla specie umana. Deriva dall’unicità, irripetibilità e unità del nostro io, che ci fanno essere creature assolutamente diverse da ogni altra creatura. Ma oggi questa concezione dell’io non esiste più.

Fare qualcosa di assolutamente inutile, in termini efficientistici od utlitaristici, non sempre è privo di rilievo. In una società ci sono delle “realtà segnale” che ci dicono il livello di civiltà di una convivenza. La disponibilità a prenderci cura dello stato vegetativo è certamente una di queste. L’assistenza erogata a questa condizione è espressione dell’indisponibilità a rassegnarci troppo facilmente o fatalisticamente al male e al dolore che comunque, con buona pace di tutti, saranno sempre presenti nella nostra vicenda umana.

Lo stato vegetativo (SV) è una sindrome di recente comparsa che solitamente consegue ad uno stato di coma. È caratterizzato da un ritorno alla vigilanza, testimoniato dall’apertura degli occhi, in assenza di segni che indichino un sicuro contenuto di coscienza (consapevolezza di sé e dell’ambiente), di capacità di comprensione o di comunicazione. Nel soggetto in stato vegetativo tutte le funzioni vitali sono conservate. La sua vita non dipende quindi da supporti tecnologici, ma da quello che ognuno di noi necessita per vivere: acqua, cibo, igiene, movimento e calore umano. Possiamo senza esagerare dire che lo stato vegetativo è oggi una vera e propria emergenza che coinvolge un numero sempre maggiore di uomini e donne.

La possibilità di dire, anche di fronte alle manifestazioni più sconvolgenti della nostra finitezza, il suo contrario significa riaffermare la presenza di un bene ancora presente e sperimentabile; ed è stato davvero sorprendente vedere come questo ha potuto accadere anche nei parenti di questi soggetti. Il tempo trascorso a prendermi cura di queste persone non mi ha mai fatto pensare che il mio impegno rappresentasse per loro un surplus di sofferenza inflitta e per me una perdita di dignità professionale, ma mi ha portato spesso a domandarmi se il desiderio che quella loro vicenda si concluda risponda davvero ad un’esigenza per quell’essere o non sia invece espressione di una nostra incapacità a stare loro di fronte.

Giovanni Battista Guizzetti
da Nuovo Progetto, marzo 2007

Vedi anche:
Vite inchiodate

  




 

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