Luigi Calabresi ricordato dal figlio

Publish date 31-08-2009

by Redazione Sermig


Mario Calabresi ha parlato del suo libro “Spingendo la notte più in là” a Milano lo scorso febbraio, in una sala gremita di persone che, dopo averlo letto tutto d’un fiato, si sentivano coinvolte, vicine, quasi parte della famiglia di Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, e di sua moglie Gemma Capra, che ai figli quando chiedevano chi fosse Pinelli rispondeva “un padre che una sera non tornò a casa dai suoi figli”. Siamo andati ad ascoltarlo: ecco cosa ci ha colpito di più delle sue parole.

a cura di Maria Brambilla e Fabio Arduini

L’esigenza di scrivere un libro è nata simbolicamente dai giri che facevo nelle librerie: allo scaffale dei libri sugli anni ’70 trovavo solo libri sugli ex terroristi o scritti da ex terroristi, e non c’era niente, se non un libricino esile, bellissimo, di Agnese Moro, che non parlasse dei terroristi. Allora avevo la sensazione che chi voleva capire qualcosa aveva a disposizione un solo punto di vista. Dove stavano le vittime?
Mi sono immaginato un tavolo con quattro posti, a cui fossero rimasti seduti solo in tre a dibattere: la politica, i mezzi di comunicazione e gli ex terroristi. Il quarto posto era completamente vuoto. Perché non c’era? Perché nei giornali, nelle tv e nelle radio, “funzionano” meglio gli ex terroristi che non i familiari delle vittime; perché ci sono molti che non hanno nessuna voglia di rifare i conti col passato; perché lo Stato è completamente assente (per esempio la legge sui familiari delle vittime è arrivata 32 anni dopo la morte di mio padre: nel 2004 abbiamo ricevuto una lettera che diceva che mi avrebbero rimborsato i libri di scuola... avevo 34 anni ed era un po’ difficile trovare gli scontrini!). L’idea del libro è quella di rimettere questo quarto posto. libro_calabresi.jpg

Ho raccolto materiale per 10 anni. A un certo punto però mi sono detto: se parto da qui, dai ritagli di giornale e dalle polemiche, sono costretto a rispondere a questo, e diventerà un’opera dolorosa, rabbiosa, rancorosa. Ho buttato via tutto e avendo buttato via, mi sono reso conto di iniziare a tenere in testa soltanto quello che era rimasto dai ricordi. Ho scritto il libro negli Stati Uniti (dove ora risiede come corrispondente di Repubblica – n.d.r.), in due mesi, d’istinto e di getto; mentre scrivevo ho fatto brevissimi viaggi in Italia per incontrare delle persone che avevano una storia forte che volevo facesse parte del libro.

Ho deciso di non parlare dei processi - che hanno fatto la verità giudiziaria ma non hanno ricostruito l’immagine di mio padre - o degli ex terroristi: volevo restituire umanità all’immagine di mio padre e a quella delle altre vittime del terrorismo, volevo far spazio alle persone che sono state uccise perché facevano bene il proprio lavoro: è questa la vera rivincita! Se a 360 studenti di liceo resta in testa chi era Luigi Marangoni (che voleva un ospedale funzionante, e non sopportava venisse buttato via il sangue o si facessero affari sui morti) o Emilio Alessandrini (ucciso perché colpevole di aver contribuito a rendere “efficiente” la procura di Milano) secondo me è la strada giusta.

Quando vado nelle scuole, quando vado a parlare del libro ai giovani, cerco di parlare di queste persone anche per contrastare l’idea “romantica” del terrorismo e della violenza che esiste - anche se latente e non maggioritaria - ma continua a esistere perché non è stato fatto un discorso chiaro sulla violenza, non sono state dette parole definitive, chiare, sul fatto che la violenza non è tollerabile come strumento di lotta politica. E questo ha fatto sì che ogni volta che ci si trova di fronte a un fatto violento si dice “sì, però...”, “ma, bisogna anche capire... certo, il contesto...”. Onestamente trovo questo inaccettabile e penso che sia grave: dobbiamo essere capaci di dire che nulla giustifica l’idea che si ammazzi qualcuno perché ha un’idea diversa dalla tua.

La violenza è inaccettabile e non solo da un punto vista morale o religioso, ma anche da un punto di vista di finalità: è dimostrato che in Italia la violenza politica non è stata portatrice di cambiamento. Se da noi si parla del ’68, si vedono foto degli scontri di piazza, negli Usa invece si vedono foto vitali, di musica, ballo, teatro, cinema - di rottura. I sessantottini americani, che non hanno avuto la deriva della violenza, hanno portato l’idea di cambiamento dentro la società: per esempio, contro il monopolio dell’Ibm hanno inventato il Macintosh, contro il monopolio dell’informazione i blog... tutto è figlio di quella cultura, ma è possibile dove non è stata inquinata dalla violenza.

Aiutiamoci a fare chiarezza perché dividendo violenza e cose positive, la violenza non uccida ciò che di positivo c’è e ciò che di positivo c’è non venga tenuto per continuare per anni a giustificare la violenza.

a cura di Maria Brambilla e Fabio Arduini 


Mario Calabresi
Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo.
Mondadori, 2007

 

 

 

 

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