L’ALTRO OCCIDENTE

Publish date 31-08-2009

by Redazione Sermig


Si è fatto un gran parlare in questi giorni di Morales e delle ultime vicende boliviane. Sicuramente i nuovi modelli presidenziali latinoamericani meritano una riflessione. L’autore (Antropologo presso l’università di Torino) analizza per noi le linee di tendenza di un continente plurale, evidenziando punti di forza e nodi problematici dei sistemi nati sulle ceneri delle dittature post-coloniali.

di Piero Gorza


L’Occidente e L’America
Un oceano segna una distanza, così come secoli di meticciato raccontano di convergenze e alterità che possono produrre rappresentazioni distorte.
A proposito di America latina, Marcello Carmagnani (Ordinario di Storia dell’America latina all’Università di Torino - n.d.r.) parla di Altro Occidente, per sottolineare come il susseguirsi caotico, a volte cruento, degli eventi storici abbia forgiato un amalgama che rimanda all’Europa, ma che è anche profondamente altro. L’America latina è un continente plurale per storie, culture e sperimentazioni societarie, anche se al nostro sguardo le omogeneità prevalgono sulle differenze.
peru.jpg È un continente la cui popolazione è giovane e con forti orizzonti di speranza. Nella percezione comune il domani non è vissuto come riproposizione dell’oggi, ma è foriero di cambiamento radicale. Infine, questo Altro Occidente continua a conservare con maggior ostinazione che in altri luoghi il passato: si pensi alla forte presenza dei popoli originari e alla permanenza di elementi di antico regime e di colonia all’interno delle stesse istituzioni e delle forme di convivenza quotidiana.

Una fotografia mossa e plurale

Passando dal Messico e Centro America al blocco sudamericano, si può registrare una discrepanza di tempi e di orientamenti. Mentre nel primo caso vi è un indirizzo maggioritario che vede premiati i partiti del centro destra, nel secondo l’indicatore sembra spostare la freccia verso politiche più attente alla questione sociale.
La fine delle guerriglie tradizionali, organizzate in fronti di liberazione, in Guatemala, Salvador e Nicaragua ha aperto il cammino all’affermarsi di blocchi autoritari e all’emarginazione della sinistra, da poco istituzionalizzata. .

Un caso particolare riguarda il Nicaragua, dove è prevalso il sandinista Daniel Ortega, seppure permanga una destra maggioritaria, ma divisa.
In Messico, la ribellione dell’EZLN (Ejército Zapatista de Liberación Nacional) ha comportato la crisi del partito-Stato tradizionale ma, nonostante la situazione di prossimità dei due blocchi più forti (PRD - Partido de la Revolución Democrática e PAN - Partido Acción Nacional), la sinistra non è riuscita a vincere.
Il Sud America sembra connotato invece da un caleidoscopio di sperimentazioni diverse: Venezuela, Ecuador, Bolivia, Cile, Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay hanno orientato il timone verso politiche di sinistra, ma con modalità differenti. Colombia e Perù rimangono casi a parte. La prima perché continua ad esser dilaniata da una guerra civile che vede esercito, rivoluzionari, paramilitari e narcos emarginare chiunque non si schieri con le fazioni armate, creando il paradosso per cui le elezioni funzionano regolarmente, come la sistematica pulizia politica di qualsiasi opposizione.
Il Perù, dopo l’esperienza di Alberto Fujimori, è passato attraverso un sogno tradito da Alejandro Toledo, per poi tornare al passato con Alan Garcia, già responsabile di una fallimentare esperienza di governo.

Costituzioni e uso pubblico della memoria
Nelle ultime due decadi stupisce come quasi tutti i Paesi latinoamericani si siano cimentati nel tentativo di modificare la propria costituzione e di ripensare strutturalmente la questione del contratto sociale. Valga l’esempio di 12 nazioni su 22 che hanno inserito i diritti indigeni nella legge fondativa.
Ecuador e Bolivia stanno scommettendo su un’assemblea costituente per modificare equilibri e privilegi. Dopo le stagioni delle guerriglie e degli Stati autoritari, del supercapitalismo, la forte partecipazione sociale ha scommesso non sull’eversione ma sulla possibilità di modificare radicalmente le relazioni societarie includendo i settori da sempre emarginati.
Al visitatore attento non sfugge quanto fermento esista nelle comunità, nei quartieri periferici, e come i giornali aprano le proprie pagine a giuristi e politologi di tutto il mondo affinché si esprimano su questioni complesse: dall’ingegneria istituzionale, alla possibilità di coniugare diritti individuali e collettivi, a come un testo costituzionale possa includere al proprio interno
usi e costumi propri del diritto consuetudinario.
Se da una parte si riaprono le questioni sulla violazione dei diritti umani e si sottopongono a giudizio coloro che hanno commesso delitti contro l’umanità, dall’altra il passato (preispanico, coloniale e repubblicano) torna oggetto di discussione.

Stato di diritto e potere giudiziario
Uno dei nodi irrisolti è che, nonostante le costituzioni repubblicane abbiano fin dal sec. XIX anticipato quelle europee, lo Stato di diritto è ancora oggi una chimera. Ottime costituzioni e ammirabili quadri legislativi fanno da contrappeso a prassi giuridiche che quasi dappertutto si flettono alle regole del più forte. In questo senso lo Stato non è solo il risultato di architettura istituzionale e di sistemi di regole, ma anche di come viene vissuto dalla gente e di come discrimina quotidianamente rispetto alle regole che lui stesso ha prodotto.
Allorché bussano alla porta dell’anagrafe o del tribunale, il contadino, l’indigeno e il proletario scoprono il volto arcigno ed arrogante della cosa pubblica. Discriminazione razziale, di classe e di ceto continuano, così come scampoli di anti-Stato (ad es. i narcotrafficanti) competono con lo Stato stesso nello stabilire le regole reali della giurisprudenza.
Le donne di Ciudad Juarez e quelle di Plaza de Mayo nel richiedere giustizia pongono non solo il problema della verità e della riparazione della sofferenza, ma anche quello per cui possano funzionare regole condivise e rispettate, senza impunità.

Corporativismo e rappresentanza
Lo Stato con i buchi, lo Stato assente, lo Stato diffuso sono espressioni per descrivere la latitanza degli Stati in campo sociale e nello stesso tempo processi di occupazione dal basso degli spazi lasciati vacanti. Il passato coloniale condiziona le relazioni interpersonali, intercetuali e di classe. La questione indigena è passata attraverso i secoli e distinti modelli statuali senza ricevere soluzioni, anzi, riproducendo discriminazione sotto novelle spoglie. La democrazia rappresentativa si scontra in ogni dove con tessuti corporativi, con norme comunitarie, con meccanismi clientelari di funzionamento della società. In Brasile, sicuramente Lula è riuscito a diminuire gli indici di povertà ed operare una ridistribuzione del reddito, ma non è riuscito ad allontanare i sospetti di corruzione dal proprio governo.

In Venezuela le nuove riforme hanno rotto con il sistema corporativo che relazionava Stato, industriali e sindacati per lasciare il posto a un sistema che, pur premiando burocrazia e assistenzialismo, favorisce l’organizzazione dal basso. In Ecuador e Bolivia il comunitarismo vorrebbe coniugarsi con le regole dello Stato repubblicano, istituzionalizzando forme di autonomia locale. D’altronde proprio in queste terre alte, dal 1952, i sindacati si sono trasformati in vere e proprie istituzioni che governano il territorio.
Cile e Argentina, forse, offrono il viso più europeo di un riformismo che aumenta sfaccettature a questa stagione estremamente colorata.
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Nazionalismo e giustizia sociale
Per chi osserva dall’esterno, è impressionante lo scollamento che divide le oligarchie dai ceti popolari. Oggi la questione della democrazia, in America latina più che altrove, non è solo un problema di regole, ma di partecipazione e giustizia sociale.
In questa ottica si possono comprendere le politiche neonazionaliste che si oppongono a una globalizzazione che svuota gli ambiti della politica locale e dimentica qualsiasi forma di welfare state. Nazionalizzazione delle risorse strategiche e ridistribuzione della ricchezza sono cammini per molti versi, se non obbligati, assolutamente comprensibili.
Correa, Chavez e Morales sembrano scommettere su questi modelli, cercando però alleanze anche nelle file militari. Se cambiamo il punto d’osservazione (indigeni, afroamericani, pardos e i settori più popolari) quello che dall’esterno sembra populismo diventa attenzione verso gli esclusi di sempre. Sono cammini gravidi di rischi e di derive autoritarie, ma per il momento rispettosi delle regole democratiche.
Sotto lo sguardo di osservatori internazionali, lo stesso Chavez ha vinto più elezioni e ha saputo perdere, accettando il responso delle urne.

Nuovi movimenti e indigeni
Tutta l’America latina è stata attraversata da movimenti sociali che hanno occupato la scena politica, ma uno che sicuramente ha avuto una cogenza simbolica particolare è quello indigeno.
Le nazioni coinvolte si distribuiscono in area andina e mesoamericana (in particolare il Messico). Siamo di fronte a movimenti popolari che hanno dimostrato non solo di aver capitalizzato una notevole capacità di mobilitazione interna, ma anche di saper attrarre il consenso di settori della società urbana e meticcia.
Più che lottare contro lo Stato vogliono rifondarlo, accettandone però le regole. Al contrario di ciò che avviene da altre parti, qui, in questo Altro Occidente, scommettono su nuovi contratti sociali e offrono spunti di riflessione su ciò che pensiamo debba essere la democrazia.

 

 

 

 

 

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