La speranza che è in noi

Publish date 31-08-2009

by Franco Ardusso


È mancato ieri il prof. don Franco Ardusso, docente di Teologia Fondamentale e Sistematica al Seminario di Torino. Ci ha lasciati un amico, un uomo buono, che ha dedicato tutta la vita allo studio e alla Chiesa…

di Franco Ardusso

Vogliamo ringraziarlo dell’amicizia che ci ha donato per tanti anni, riproponendo alcuni suoi contributi scritti per il nostro mensile Nuovo Progetto:

Recentemente sul quotidiano La Stampa del 14 gennaio u.s. il filosofo Gianni Vattimo, commentando la conversione di Leonardo Mondadori narrata da Vittorio Messori in un saggio di qualche mese fa, faceva osservare la strana situazione in cui ci si trova oggi: mentre quasi nessun credente pensa di dimostrare davvero la verità del Cristianesimo, sul fronte opposto quasi nessuno ritiene di poter dimostrare razionalmente che il messaggio cristiano, o quello di qualunque altra religione, è falso. Sarebbero scomparsi, in sostanza, i credenti che sanno dar ragione della loro fedeltà e gli increduli capaci di giustificare il loro no ad ogni credenza religiosa. Gli uni e gli altri si affiderebbero in pratica al loro sentire soggettivo.

 Il convertito alla fede motiva la sua posizione attestando la gioia e la serenità ritrovate tornando alla pratica cristiana, e chi dice addio alla fede motiva la sua decisione dicendo che la sua vita non avrebbe senso se continuasse a credere in dogmi ritenuti assurdi e senza senso. Con un termine un po’ irriverente, Vattimo chiama questo atteggiamento, che in qualche modo accomuna il credente e il non credente, “la prova del budino”; si assaggia la gioia e la serenità del credere e del non credere, e se il gusto dell’assaggio è di gradimento si conclude che il cristianesimo è vero, se invece la prova del gusto dà risultati negativi si conclude che il cristianesimo è falso.

Non prendo in considerazione per ragioni di spazio
l’atteggiamento del non credente. Trovo molto preoccupante, se la diagnosi di Vattimo corrisponde a verità, la posizione del credente che rifiuta e non sente neppure il bisogno di indicare le ragioni per cui crede. Il credente infatti non può o meglio non dovrebbe credere alla leggera, come se la fede fosse una scelta volontaristica, irrazionale, emozionale, una questione di gusto insomma.

Una scelta di questo genere sarebbe, in ultima analisi, indegna di quel Dio verso il quale la fede si dirige, e indegna dell’uomo stesso, che è un essere dotato di esigenze di onestà intellettuale e di rettitudine morale nei confronti degli atti che compie. In quanto atto autenticamente umano, anche se posto necessariamente col soccorso e col dono di Dio, l’atto di fede richiede delle valide ragioni per essere posto.

Le ragioni della fede, che, come diremo nel prossimo intervento, si trovato nei contenuti della fede stessa, non producono la fede, ma ne garantiscono la ragionevolezza. Giustamente un teologo francese ha potuto scrivere: “Noi non crediamo per delle ragioni, ma abbiamo delle ragioni per credere”. Le ragioni della fede garantiscono, per riprendere un espressione del Concilio Vaticano I (1870), che la fede è un atto di omaggio a Dio conforme a ragione.

Chi rinuncia a interrogarsi sulle ragioni della sua fede è esposto, a mio parere, ad un grave pericolo, quello di abbandonare, ad un certo punto della vita, la fede, ritenendola, una sovrastruttura, senza aggancio profondo con l’esperienza umana e senza giustificazioni di fronte ad una ragione che vuole rendersi conto del perché. C’è un bellissimo testo, scritto agli albori del Cristianesimo, che sollecita i cristiani ad essere “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15). È un testo di grande attualità anche per i nostri giorni.

Franco Ardusso
Altri contributi:
· Rendere ragione del nostro credere
· La casa sulla roccia
· L’obbedienza della fede

 

 

 

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