Intervista ad Elisabetta Pozzi

Publish date 31-08-2009

by Redazione Sermig

  
Lasciare tracce di sé…
Intervista ad Elisabetta Pozzi
di Monica Capuani

Come mai hai pensato a portare in teatro “Fahrenheit 451”?
Nel corso di questi ultimi anni, Daniele ed io abbiamo molto discusso su cosa potesse suscitare, oltre alla nostra curiosità, un interesse più vasto in un pubblico che non fosse quello consueto del teatro. Da quando ci conosciamo, abbiamo assistito al lento imporsi del mezzo televisivo sulla cultura. Un imprinting così forte da impedire quasi la possibilità di una autonomia del pensiero. Mai come negli ultimi dieci anni si è fatta sentire la mano pesante della televisione. Abbiamo riletto Fahrenheit 451 e la sua capacità profetica ci è sembrata impressionante ed estremamente attuale.Così, come abbiamo fatto spesso in questi anni - da Medea di Christa Wolf a Ti ho amata per la tua voce di Sélim Nassib - abbiamo cominciato ad adattare il romanzo. Dopo qualche tempo siamo venuti però a sapere che Bradbury stesso, alla fine degli anni Settanta, aveva preparato una versione per la scena apportando, a quasi trent’anni dall’uscita del romanzo, modifiche importanti al suo impianto. Poi Luca ha espresso il suo interesse per il progetto e noi, ovviamente, lo abbiamo accolto con entusiasmo. Oggi i libri non si bruciano, ma non si leggono, e il risultato è lo stesso. E la cosa più agghiacciante è che la gente ha deciso di non leggere di sua volontà.

Rispetto a come lo avevate immaginato, lo spettacolo è cambiato molto nella concezione di Luca Ronconi?
Personalmente non amo molto immaginare più di tanto un testo prima di affrontarlo. Preferisco immergermi in un personaggio nel momento in cui cominciano le prove. Devo ammettere che di Clarisse, però, un’idea me l’ero fatta. La immaginavo come un personaggio fanciullesco, una ribelle un po’ hippy. Per la mia generazione i ribelli erano giovani che rifiutavano un certo orientamento della politica, che determinava l’impostazione borghese della società. Clarisse per me era una specie di sessantottina, una fricchettona con i fiori nei capelli. Luca, invece, giustamente l’ha impostata in maniera diametralmente opposta: la sua Clarisse è una donna estremamente seria. In una società di quel genere, quello che lei esprime è il suo totale disagio nel vivere in un mondo dominato da un totale disimpegno. Beatty, il comandante dei vigili del fuoco, dice: «Pensiamo solo ai quiz e ai risultati dello sport, e bruciamo i libri». Il ribelle in quel tipo di futuro svuotato di memoria e di tradizione è qualcuno che vuole capire, vuole approfondire, vuole impegnarsi. Clarisse è una giovane animata dal desiderio e dal bisogno di fuggire di lì per ricostruire un mondo diverso. Luca mi ha dato un’indicazione, mi ha detto: «Pensa ad Alida Valli ne Il terzo uomo di Carol Reed». Clarisse è una specie di spia con l’impermeabile e gli occhiali scuri, una donna che può far pensare a una giovane partigiana durante la seconda guerra mondiale, composta, seria, consapevole dell’importanza della propria missione. Mi viene in mente Ingrid Thulin ne L’agnese va a morire di Giuliano Montaldo, il film tratto da romanzo di Renata Viganò. Ho pensato alla generazione di mia madre, che ha vissuto la giovinezza negli anni cupi del regime fascista e della guerra. Erano ventenni seri, centrati, senza grilli per la testa. Così sarà Clarisse.

D’accordo con Ronconi, hai deciso di interpretare anche il ruolo di Faber, il vecchio nonno/zio filosofo di Clarisse, invece che Mildred, la moglie di Montag (il doppio ruolo che nel film di Truffaut interpretava Julie Christie)…
All’inizio avevo pensato ai due ruoli femminili, ma la proposta di Luca di optare invece per il ruolo di Faber al posto di quello della moglie di Montag, impasticcata e schiava delle pareti-televisore è stata un’idea che mi ha entusiasmata… Sarebbe stato molto difficile gestire il ruolo di Mildred, innanzitutto per come sono stati organizzati i cambi scena. Ma al di là di questo, la trovo una scelta illuminante perché Clarisse e Faber sono parenti e, volendo dare a questi personaggi molto concreti anche un che di metaforico - lei è una specie di fata che cerca di tirar fuori la parte migliore di Montag - il prolungamento ideale di Clarisse è il nonno/zio Faber, il filosofo un po’ da favola che ha paura di mettere a repentaglio la propria vita ma che alla fine porta Montag sulla strada di un’evoluzione inarrestabile. Interpretare il ruolo di Faber era una possibilità alla quale non avevo pensato, ma quando Luca me l’ha prospettata mi è sembrata assolutamente appropriata. E come attrice, mi divertirò moltissimo.

Monica Capuani
(dal programma di sala dello spettacolo Fahrenheit 451)

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