GUINEA BISSAU: Sotto il cielo di Fanhè

Publish date 10-11-2009

by Redazione Sermig

 Quanto tempo passa nelle nostre case tra un sintomo di malattia e l’assunzione della terapia idonea? Spesso bastano pochi minuti. Ma dall’altra parte del mondo non è così. Parla un gastroenterologo, volontario presso il Poliambulatorio medico del Sermig, che ha deciso di fare delle proprie ferie l’occasione per un gesto di “restituzione”. 

 Foto e testo di Marco Gariazzo


L’aereo che mi porta in Guinea Bissau è avvolto dal nero della nott
e, che raramente lascia vedere qualche pallida luce nel deserto del Sahara. E questo buio continua anche in prossimità dell’atterraggio, durante il quale mi è possibile scorgere solo qualche bagliore di luna riflessa dai bracci di mare che penetrano nella terra di Guinea, in prossimità di Bissau. La mancanza di luci, se non quelle dell’aereo che illuminano la pista a pochi metri di altezza, mi fa ricordare che sto per entrare nuovamente in contatto con la povertà in tutte le sue espressioni. Gli abitanti della Guinea Bissau ufficialmente sono meno di 2 milioni, ma l’ultimo censimento risale a circa 30 anni fa e probabilmente non tutti i neonati dei villaggi sperduti, come quello dove mi sto recando, vengono registrati all’anagrafe. La produzione industriale è pressoché inesistente, le attività lavorative tassabili sono pochissime. Mi chiedo come sia possibile, su queste basi, costruire un’organizzazione sociale in grado di sviluppare un’assistenza sanitaria, un sistema pensionistico, un sistema scolastico, infrastrutture basilari per noi irrinunciabili. L’ingresso nella vita adulta per i bambini di questo Paese arriva molto presto.

guinea bissauLa strada che lascia Bissau in direzione nord-est è accettabile, a parte qualche buca nell’asfalto. In Africa è curioso vedere le auto che procedono velocemente, zigzagando nel tentativo di evitare le buche più grosse, e i pulmini che ondeggiano sfidando le leggi della fisica con i loro carichi inverosimili di persone, animali e bagagli. A notte fonda arrivo alla tabanca (villaggio) di Fanhè, sotto un cielo stellato che mostra tutta la sua ricchezza, in mezzo alla savana, dove qua e là si vedono le morance: piccoli gruppi di capanne affacciate attorno ad un cortile. In ogni morance abitano i membri di uno stesso gruppo famigliare ed i bambini camminano carponi, condividendo lo spazio con maialini magri e galline. Le case sono costruite con mattoni di fango cotti al sole, divise in camere buie e coperte da un tetto di paglia. La gente vive fuori dalla propria abitazione che utilizza solo come rifugio per la notte, in caso di malattia o di maltempo. Qui, alcuni anni fa, volontari bresciani e torinesi hanno accettato la proposta di aiutare la popolazione, senza il supporto di una missione. Un raro esempio di impegno laico, attento a rispettare l’identità di questa etnia balanta coinvolgendo la gente del villaggio. L’idea funziona bene: in tre anni è stata costruita una scuola che lavora a tempo pieno con due turni giornalieri, un ambulatorio rurale, pozzi ed in ultimo un asilo. Rispetto ad altri posti che ho visto in Africa, manca la chiesa, ma qualcosa comincia a muoversi anche in questo senso.

La popolazione è ancora animista, o per meglio dire fedele alla religione tradizionale. Davanti alle abitazioni c’è una piccola capanna con il tetto di paglia: ospita la divinità chiamata Iran che protegge la famiglia. Un primo approccio al cristianesimo è portato da Giulio, un catechista locale, sposato, molto gentile e cordiale, che parla un buon italiano, imparato grazie alla collaborazione con i padri francescani di Nhoma, distanti circa 20 km. Si occupa della catechesi e tutti i venerdì pomeriggio arriva con la motoretta per incontrare i ragazzi del villaggio che escono da scuola. Ho sentito che qualche giovane inizia ad avere delle perplessità sulla poligamia, ancora molto diffusa. Le donne rivestono un ruolo di secondaria importanza nella società. Si occupano dei lavori della boulangia (la campagna), procurano acqua trasportando con arte sulla testa grossi secchi da 25-30 litri, allevano i figli, non possono partecipare alle riunioni consiliari che sono riservate ai maschi anziani.

La poligamia non rappresenta un motivo di umiliazione o di gelosia, anzi le mogli sono le prime che a volte si attivano alla ricerca di colleghe che possano alleviare la fatica di alcune incombenze. È un’espressione culturale molto distante dai nostri canoni, ma che ha le proprie radici in una cultura plurisecolare dove la vita è una lotta per la sopravvivenza e per la continuazione della specie umana. Gli uomini hanno uno spiccato senso manageriale nei riguardi delle mogli e nella organizzazione delle feste. Il carnevale, per esempio, è molto sentito ed è una delle occasioni per bere il vino di palma o quello di cajù, che si procurano in bidoni da 25 litri. Anche i funerali degli adulti sono un buon motivo per fare festa, attorno all’abitazione del defunto: i tamburi ed i tronchi suonano per giorni e giorni, accompagnati da balli e bevute. Il choro (funerale) coinvolge tutta la comunità, che sospende qualsiasi attività lavorativa per recarsi alla casa dei familiari. Passare all’aldilà significa lasciarsi alle spalle le miserie di una vita dura, sperimentata fin dalla prima infanzia; quindi perché non festeggiare? La vita dei bambini, in stretto contatto con gli animali domestici ed in condizioni igieniche quantomeno scarse, fa sì che sia frequente vedere le loro gambine deturpate dalla scabbia ed i capelli cadere a ciocche per i funghi. Crescono senza giocattoli, a volte anche senza vestiti, senza una registrazione anagrafica, senza acqua potabile, senza pediatra e, per contro, con la presenza di centri di cura per malnutriti di dubbia efficacia. Le mamme li portano in un ambulatorio con il cartoncino giallo dell’Unicef dove vengono registrate le vaccinazioni, e dove un grafico rappresenta quella che dovrebbe essere la normale curva di crescita.

Tanti non hanno un peso registrato anche dopo mesi, perché i centri di salute sono lontani; spesso sono sotto peso. Mi è capitato di vedere una bimba malnutrita perché la mamma non aveva latte e la alimentava con latte in polvere - chissà in che modo recuperato - e farina di riso, solo 2 volte al giorno anziché 5; inoltre, da due giorni aveva rotto l’unica tettarella del biberon! Comunque, questi aspetti tristi ed a volte drammatici della vita quotidiana non spengono gli entusiasmi e la gioia tipica dei bambini; inconsciamente insegnano a noi che proveniamo dal mondo occidentale - dove abbiamo avuto senza meriti la fortuna di nascere - che la restituzione delle nostre tecnologie, delle nostre competenze, del nostro tempo e di tutte le nostre ricchezze è doverosa. I piccolissimi mi fanno venire in mente la nascita povera di Gesù... Pochi giorni prima di partire dall’Italia, i volontari già presenti in Guinea mi telefonano per chiedermi pomate contro le ustioni: una bambina di cinque anni si è rovesciata dell’acqua bollente sul petto e sul mento. Pochi giorni dopo la incontro, indossa una camicetta dal colore indecifrabile. Mi aspettavo di peggio, anche se l’ustione è molto estesa e fa risaltare ancora di più i grandi occhi neri che mi fissano con sospetto. Non ha mai incontrato un medico.

Comincio a medicarla ed a pulirla. La guardo in viso, perché non accenna ad un pianto o ad un lamento, e mi accorgo che scendono due lacrime avvolte in un silenzio che mi assorda la mente, tante sono le riflessioni che vi si accavallano. Due giorni dopo, non vedendola arrivare in ambulatorio per la medicazione, chiedo a Daniel ed Olivera, i miei due infermieri, di andare a chiamarla, ma capisco che ci sono resistenze. Insisto. Finalmente arriva accompagnata da una ragazza: l’ustione non aveva più la medicazione ed era impiastrata di una cosa nera indefinibile. Con l’aiuto degli infermieri, che parlano un po’ di italiano, insisto per medicarla, ma non c’è verso. Non vado oltre, la lascio andare: preferiscono continuare le cure dal curandero (lo stregone) del villaggio. Dopo qualche giorno la rivedo e l’ustione non è peggiorata. Nei giorni successivi quando mi incontra mi chiama per nome e mi sorride. Dopo pochi giorni il bianco, nuovo del villaggio, è entrato a far parte del gruppo di amici. guinea bissau
Tutti mi vogliono dare la mano, che io stringo volentieri senza pensare troppo a cosa possono avere toccato un momento prima! E a proposito di bambini, bisogna dire che c’è sempre il peggio anche quando si pensa di essere arrivati in fondo al barile. Vado a visitare l’ospedale di Comura, una bella realizzazione costruita a padiglioni, ora in ristrutturazione. Mi accoglie una suora italiana che mi presenta ad un giovane medico portoghese, di aspetto solare e con due occhi che sembrano penetrarti nel profondo. Con lui visito il reparto di medicina-malattie infettive, di cui è responsabile. Mi illustra i casi clinici e le terapie, mi mostra le cartelle cliniche e le radiografie dei casi più interessanti. Gli chiedo se ha fatto un contratto per alcuni anni e mi risponde che starà fino a quando Dio vorrà, perché lui è frate francescano, oltre che medico. Per la prima volta nella mia vita vedo gli ammalati di lebbra. I casi di AIDS la fanno da padrone, tanti sono complicati dalla TBC. Ci fermiamo al letto di una ragazza che sta morendo, è uno scheletro divorato dall’AIDS, ormai arrivato allo stadio terminale che è quello in cui arrivano in ospedale la maggior parte degli ammalati. Il medico mi racconta il caso di un paziente con una fistola esofago tracheale (forse una TBC) che era ovviamente impossibilitato ad alimentarsi. Dato che in tutta la Guinea non esiste un gastroscopio, così come non esiste una TAC, il paziente venne affidato al chirurgo per confezionare una gastrostomia per la nutrizione.

L’intervento, eseguito in anestesia locale e con una sedazione da Valium, fu un po’ movimentato. Nonostante tutto ora il paziente sta bene e si nutre attraverso una sonda realizzata con un catetere vescicale, dato che non c’è altro. Dopo avere visitato la pediatria dove vengono ricoverati i bambini sieropositivi, mi invita a pranzo nel suo convento. La fame è poca, prendo un cucchiaio di riso bianco con un pezzetto di pesce, molto buono. Ci siamo solo noi due e vedo che lui non si serve. Gli chiedo perché non mangia qualcosa e mi risponde: oggi solo pane ed acqua perché è mercoledì delle ceneri. Avrei voluto sprofondare. Prima di salutarmi mi riempie una tasca di arachidi coltivate da loro e mi chiede se sono cattolico. Speriamo di incontrarci ancora. Questi sono esempi che ci aiutano a non dimenticare i poveri, verso i quali abbiamo il dovere di restituire con le nostre capacità una parte di quella fortuna che non ci ha fatto nascere in un Paese povero. Il piccolo centro sanitario di Fanhè vede pian piano aumentare i pazienti. Daniel ed Olivera sono due bravi ragazzi che, con la volontà di collaborare gratuitamente alla realizzazione di un progetto, mettono a disposizione la loro disponibilità anche senza possedere una preparazione specifica. Il loro impegno è evidente ma occorre dare loro qualche direttiva che possa aiutarli anche dopo la nostra partenza. Osservo il loro approccio con la gente: parlano poco ed i pazienti altrettanto.

Qui non esiste la possibilità di fare esami, sia per l’assenza di attrezzatura che per i costi che gravano sulla sanità e che la gente non può affrontare. Penso che l’unica soluzione sia quella di correggere la scarsità di dialogo tra loro ed i pazienti perché in una realtà come questa, per altro frequente in Africa, il sospetto diagnostico nasce da un’anamnesi. Spiego loro che per fare una diagnosi, quanto meno di sospetto, bisogna raccogliere la maggior quantità possibile di informazioni dal paziente. Preparo per loro uno schema semplice di domande da fare al paziente, con le possibili risposte che portano ad un sospetto diagnostico. Il paziente dovrà essere ricontrollato e se la terapia avrà risolto il problema, avremo diagnosticato giusto. Ci basiamo sull’uso di pochi farmaci, facilmente reperibili. I pazienti danno un piccolo contributo per le visite e la terapia che ricevono e questo serve al centro sanitario per mantenere la fornitura farmaceutica. Affido a loro anche il compito di produrre l’ipoclorito di sodio con il cloratore realizzato dal Sermig. Spiego l’uso, per altro molto semplice, e come diluire il prodotto ottenuto. guinea bissau
Si assumono questo incarico con cura perché si rendono conto che molto si può fare a livello preventivo, soprattutto per arginare un problema come quello della potabilizzazione dell’acqua, causa di molte diarree. Inoltre capiscono l’importanza del prevenire le malattie con il lavaggio e la disinfezione delle verdure, con la disinfezione dei biberon, dei ferri per le suture in ambulatorio, del lavaggio del lettino visita e della bilancia per bambini. L’ipoclorito comincia ad essere distribuito alle famiglie che conservano l’acqua, attinta da pozzi lontani, in contenitori di terracotta riposti all’interno delle abitazioni. Lo distribuiscono dopo aver spiegato a cosa serve ed in quali diluizioni usarlo. Per incentivarli a continuare la produzione anche in nostra assenza, consiglio di chiedere un contributo simbolico anche per l’ipoclorito; il ricavato resterà a loro come piccola ed iniziale gratificazione. L’ambulatorio è tenuto pulito ed ordinato. In questi giorni è stata fatta arrivare l’acqua potabile ed è stato montato un lavello inox. Daniel mi chiede di andare a visitare sua moglie. La trovo magrissima, seduta su di una sdraio dentro casa sua, al buio, con gli occhi incavati ed il respiro affannoso reso difficoltoso anche da una tosse insistente. Le mucose sono bianche ed è febbricitante. I polmoni gorgogliano pieni di catarro che espelle a fatica in una lattina arrugginita. Cominciamo la terapia antibiotica. La risposta pare buona ma dopo qualche giorno il quadro si aggrava nuovamente, soprattutto a causa dell’anemia. Decido di portarla all’ospedale di Mansoa, che mi sembra dignitoso per gli standard africani.

Parlo con un medico francese che è d’accordo a trasfondere sangue e mi propone la terapia che dovrà eseguire in ospedale. I farmaci devono essere acquistati in farmacia. Vado, compro tutto, compresi i batuffoli di cotone, ma al mio ritorno in ospedale scopro che per le trasfusioni bisogna andare nella capitale, con la loro richiesta e la provetta per la determinazione del gruppo. A questo punto decidiamo di andare noi a prendere il sangue e di riportare la paziente a casa, dove sarà sottoposta alla terapia, senza dover sostenere le spese di degenza che sono troppo elevate per la famiglia. In ospedale a Bissau ci danno una sola sacca di sangue al posto delle sei richieste, a fronte di un pagamento pari a trenta euro (lo stipendio di un mese). Al ritorno le infondo la sacca (trasportata in auto sotto un sole cocente). Tutto va bene e dopo qualche giorno comincia a riprendersi. Le faccio anche il test dell’AIDS che la suora di Comura mi aveva regalato. Per fortuna è negativo. Prima di partire trovo il coraggio di andare a salutarla e con lei saluto una parte di Africa che mi lascia un segno dentro, per non dimenticare.

da Nuovo Progetto giugno – luglio 2009  

 

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