Dietro il fango

Publish date 14-08-2012

by Aldo Maria Valli

di Aldo Maria Valli - Di chi stiamo parlando quando parliamo di credenti? La domanda non sembri oziosa. La sociologia delle religioni da tempo si interroga sul fenomeno del “credere senza appartenere”, secondo la nota definizione della studiosa inglese Grace Davie (foto).

La fede religiosa, specie in Occidente e in particolare in Europa, non è scomparsa, ma si è trasformata: molte persone credono in un Dio senza però identificarsi con il Dio proposto e codificato dalle religioni ufficiali. Si crede, ma non si sa di preciso in chi e in che cosa. Si crede, ma molto spesso il Dio nel quale si dice di credere è costruito a propria immagine e somiglianza, prendendo elementi diversi da differenti esperienze religiose e componendo un puzzle che risponde alle proprie esigenze. Credere senza appartenere, senza cioè far parte di una Chiesa o facendone parte in modo blando ed episodico, vuol dire anche credere senza tener conto dei precetti.
Si prega Dio, ma non si rispettano le norme morali e comportamentali che la religione prescrive. Si prega Dio, ma ci si sente sciolti da qualsiasi tipo di obbligazione rispetto ai comandamenti. Si prega Dio, ma non si avverte il bisogno di essere parte di una Chiesa oppure si frequenta una Chiesa ma senza una particolare consapevolezza di ciò che la Chiesa propone e ordina. Ma la formula “credere senza appartenere” può essere facilmente capovolta nel suo contrario, ovvero “appartenere senza credere”. L’ha notato efficacemente un’altra sociologa delle religioni, la francese Danièle Hervieu-Léger: ci si sente legati a una religione e alla sua Chiesa, specie per il valore dei simboli, anche se non si coltiva una vera fede.
La vicenda avvenuta in Italia e relativa alla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche è significativa. Quando i giudici della Corte europea di Strasburgo hanno accolto il ricorso presentato da una mamma contro la presenza del crocifisso, la sollevazione è stata quasi generale, coinvolgendo molte persone non credenti ma desiderose di mantenere il simbolo del cristianesimo come elemento caratterizzante della nostra cultura e della nostra civiltà.
C’è, in questo senso, una rivincita di Dio rispetto al processo di secolarizzazione, ma è una rivincita che avviene sul piano culturale collettivo, senza coinvolgere la fede delle singole persone. In altre parole, come società e come comunità abbiamo bisogno di simboli, e cerchiamo di rispondere a questo bisogno andando a recuperare i simboli religiosi di una tradizione che avevamo perduto, ma come singoli ci comportiamo in modo assolutamente secolarizzato. Secondo un’altra teoria, quella cosiddetta dell’economia religiosa, che concentra l’attenzione non tanto sui fruitori, o sui clienti delle diverse fedi, quanto sui produttori, ciò che determina il comportamento religioso delle persone è invece l’offerta religiosa.

Sono le diverse Chiese, con i loro differenti comportamenti e le loro scelte, a decretare il loro stesso successo o insuccesso. Queste ricerche mi sono tornate alla mente perché molte persone, di fronte allo scandalo pedofilia che si sta abbattendo sulla Chiesa cattolica, mi chiedono: “Secondo te che cosa c’è dietro? C’è una manovra?”. Io per carattere e formazione non sono un complottista e quando qualcuno cerca di spiegare certi fenomeni facendo ricorso alla teoria del complotto mi viene l’orticaria, perché penso che il più delle volte sia una scorciatoia per non guardare in faccia la realtà e non assumersi responsabilità. Però di fronte a un fuoco di fila così concentrato, così abilmente orchestrato e così tambureggiante come quello in atto contro il Papa e la Chiesa di Roma è difficile non pensare male. Credo che certi ambienti, a partire proprio dalla teoria dell’economia religiosa, abbiano individuato nei casi di pedofilia tra i sacerdoti un elemento in grado di rovinare l’immagine della Chiesa cattolica e di allontanare così da essa i clienti vecchi e nuovi. Questi ambienti sono settori del mondo massonico, sono lobby economico-religiose.

È un mondo che per svariati motivi ha interesse a screditare santa romana Chiesa facendola apparire per niente santa e anzi molto peccatrice. Il Papa dà fastidio a molti e per tanti motivi. Ma per due soprattutto: perché dice che una verità esiste e perché fa appello alla giustizia sociale. Il primo è un fronte filosofico, il secondo è economico-sociale. Ma entrambi concorrono a fare di lui un punto di riferimento che ostacola le manovre di chi invece campa sul relativismo morale e sull’ingiustizia sociale. Di qui gli attacchi nei suoi confronti. Che ci sono sempre stati, naturalmente, ma che in questo momento sono particolarmente accaniti perché Benedetto XVI, sia pure senza clamore, com’è nel suo stile, è stato ed è particolarmente efficace nel mettersi di traverso contro la cultura del libertinismo, figlia del relativismo morale, e contro i produttori di ingiustizia sociale che si arricchiscono grazie allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Ma all’origine di questi anti-papa c’è anche qualcosa della prima teoria di cui abbiamo parlato. Poiché i simboli della fede, nonostante la secolarizzazione spinta, sopravvivono in quanto simboli di tradizione perché nella società c’è questo bisogno, ecco che il simbolo va sporcato, in modo che non sia più in grado di funzionare da richiamo e che si perda l’affetto nei suoi confronti. Mi sembra che tutto torni. Sta alla Chiesa reagire di conseguenza, con robuste iniezioni di credibilità. Ma ha consapevolezza della sfida? Noi che vogliamo bene al Papa e alla Chiesa possiamo chiedercelo a viso aperto.

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