DAL KENYA, uno sguardo sull’Africa

Publish date 31-08-2009

by Redazione Sermig


Gli scontri post-elettorali nel Paese delle vacanze da sogno sono stati un’amara sorpresa per molti. Il “J’accuse” dell’Africa.

di Antonio Rovelli


[parte prima] [parte seconda]

Carissimi e carissime,

catastrofi umanitarie, genocidi e guerre tribali compongono, nell’immaginario dell’Occidente, la normalità dell’Africa post- coloniale. È un profilo scontato: un modello accettato che indigna, sgomenta, che in certi casi mobilita la solidarietà delle opinioni pubbliche. Ma solo eccezionalmente, dalle dichiarazioni scaturiscono azioni.

Santuario della Consolata – Torino. Sabato 12 gennaio 2008 ore 18.15:       i Missionari e le Missionarie della Consolata invitano a una preghiera per la pace in Kenya.
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Un pezzo di Africa è saltato in aria in questi giorni di inizio anno. Questa volta è toccato al Kenya aggiudicarsi la ribalta della cronaca internazionale. Triste sorpresa, inaspettata per tutti, il colosso dai piedi di argilla è crollato, e si unisce alla già lunga catena di Paesi africani colpiti periodicamente da colpi di Stato, guerre a “bassa intensità”, rigurgiti di fatiscenti movimenti di ribelli in triste competizione per il primato della cronaca, in un continente alla deriva.

La fragile convivenza tra le più importanti tribù (Kikuyu, Luo e Luya) in alcune province della Rift Valley si è spezzata, alimentata probabilmente dalla campagna elettorale di alcuni cinici politici. Tale rivalità politica ha iniziato ha cavalcare l’onda delle linee tribali subito dopo l’indipendenza, covava sottotraccia come un fiume carsico, ed è emerso improvvisamente questa volta nella combustione della rabbia dei poveri abitanti degli slums di Nairobi, nelle città del Nord-Ovest, Kisumu ed Eldoret, e in alcune dei distretti nomadici del Nord. La frode elettorale quindi non ha fatto altro che accendere la miccia e lanciarla nella miscela esplosiva delle condizioni miserabili degli slums e nelle rivalità tribali.

La rabbia montante degli abitanti degli slums e la convivenza tesa nelle città, incandescente sotto la cenere ai tempi della dittatura del presidente Moi, attendeva il momento propizio per la deflagrazione. Le atrocità successe sono state documentate prontamente, le foto sui giornali e nei siti web hanno portato nelle nostre case il carico di vittime, di distruzione, le file di sfollati e profughi. Ora è emergenza umanitaria, sociale e politica, e per la nostra gente l’amara conferma di un’Africa che difficilmente potrà cambiare.

I nostri media nazionali, dando una grande copertura di notizie del Kenya, hanno innescato la solita onda emotiva, complice il periodo natalizio e la sorte di migliaia di nostri connazionali in vacanza sulle spiagge di Malindi e vicino a Mombasa.
Certamente di grado inferiore a quella sulla sorte dei nostri connazionali in vacanza alle Maldive travolti dallo Tsunami insieme alle popolazioni locali il 26 dicembre 2004. Mentre il termometro emotivo è sceso in fretta per le alluvioni nel Bangladesh o il terremoto in Perù dell’anno scorso, perché troppo lontano e… senza coinvolgere dei turisti occidentali!!

Comunque, è questione di giorni, anche il Kenya finirà nel dimenticatoio, se non ci saranno improvvise recrudescenze di violenza eclatanti e, appena i tempi lunghi della negoziazione garantiranno la sicurezza delle spiagge e degli interessi economici occidentali, il Kenya rientrerà dal ruolo di protagonista mediatico. Una storia che si ripete periodicamente in Africa ogniqualvolta scoppia una tragedia: come per lo sterminio silenzioso dei Nuba in Sudan, il dramma dei profughi del Darfur, gli Aborigeni del Botswana, la situazione del Kivu nella R.D. Congo, la Costa d’Avorio spaccata in due, l’autoritarismo di Mugabe nello Zimbabwe, e i 250 mila disperati che hanno abbandonato Mogadiscio negli ultimi dieci giorni del novembre 2007 in una Somalia precipitata nell’anarchia dopo l’intervento delle truppe etiopiche e i bombardamenti americani. kenya2.jpg

Non va piuttosto sprecata l’occasione per riflettere sulla drammatica situazione di milioni di persone in Africa, sul ruolo strategico di alcuni Stati nella guerra per procura contro il terrorismo, sull’ipocrisia delle relazioni politico–economiche che l’occidente in generale e l’Europa in particolare intrattiene con essi. I morti, gli sfollati, i 100.00 profughi del Kenya non scalfiranno più di tanto l’indifferenza collettiva, semmai la preoccupazione dei tour operators e la perdita di immagine di una nazione in balia dell’alternanza di elites corrotte alla mercé di una consistente compagine di ricchi bianchi e indiani. La reazione violenta, solo apparentemente incontrollata, e le efferate atrocità hanno sorpreso il mondo intero e frantumato l’immagine di un Kenya “nazione pacifica”, incontaminata dai mali, ora però delusa di se stessa e ridotta a conferma desolante di un’impressione generale che tanti hanno sull’Africa alla deriva, fuori controllo e senza speranza.

Così la garanzia di stabilità smentita in Kenya assume il ruolo di uno spartiacque storico, cui neanche il più resistente cinismo dei suoi politici toglierà il posto dell’ennesima delusione africana.
Le violenze scoppiate in Kenya sintetizzano interessi, business e potere, locali e internazionali; la meno ripresa faccia sporca dell’Occidente in Africa, dove l’Europa, attraverso i soldi, esporta i suoi interessi e quel peggio che solo nel Terzo Mondo può ormai permettersi. Fino a ieri, in Africa, tutto alla fine ci era concesso: anche risolvere degli accordi commerciali con l’arroganza del ricatto. E da domani la fragilità dell’Africa, confermata in Kenya, potrà essere invocata per ulteriori ricatti economici di vecchi poteri coloniali nostalgici dell’impero.

Puntare i riflettori sulla situazione in Kenya significa lasciare la vetta dell’iceberg africano, per scendere in profondità dove sopravvive una massa sommersa, alla deriva, costituita da miseria, corruzione e violenza. Dopo la fine della Guerra Fredda, fino al 2001, l’Africa sullo scacchiere internazionale ha perso la sua posizione geopolitica, per diventare serbatoio di materie prime e nuovi mercati da conquistare. Le cancellerie occidentali oggi sono preoccupate dalla conquista dell’energia africana da parte della Cina e saltuariamente della liberazione di sprovveduti turisti o inermi lavoratori, come è successo in Niger pochi anni fa e periodicamente in Nigeria.

L’appello che lancio è quello di andare oltre le emozioni suscitate dalle immagini e dagli articoli strappalacrime che alla fine additano nell’odio tribale l’unico fattore da colpevolizzare, uno stereotipo troppo comodo da brandire, e molto più facile da intuire per la gente in Italia. Piuttosto l’informazione dovrebbe porsi alcune domande per sollevare inquietudini e dubbi sulle cause dei misfatti scavando nella storia passata e più recente. Chiedersi, per esempio…

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