AFRICA: VOCI DELL’ALTRO MONDO

Publish date 31-08-2009

by Simone Bernardi


Hanno avuto grande spazio in questi giorni sui media le voci di Live 8, la grande kermesse musicale che sabato 2 luglio ha avvolto il pianeta, chiedendo ai Grandi del G8 di mettere fine alla povertà nel mondo.

a cura della redazione

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 Meno di un mese fa altrettanta risonanza aveva avuto l’annuncio della cancellazione del debito estero per i 18 Paesi più poveri (accordo considerato utile ma insufficiente dagli esperti, poiché riguarda solo un numero ristretto di Paesi, non mette in discussione le condizioni economiche di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale che hanno dato origine al dramma del debito, non garantisce il rispetto degli impegni per lo sviluppo con risorse addizionali).Accanto a queste voci, più sommesse ma non meno efficaci continuano il loro “passaparola” le voci di milioni di persone che hanno trasformato la lotta alla povertà in uno stile di vita quotidiano di condivisione con i più poveri.
Più raro sentire le voci di chi vive la povertà come l’unica normalità possibile. Proprio queste abbiamo scelto di amplificare, in vista del vertice del G8 che inizierà il 6 luglio, perché ci raccontino come si vede il mondo … dall’altra parte del mondo.
La prima è di Filomeno Lopes, giovane giornalista e filosofo della Guinea Bissau: ci racconta un’Africa che non conosciamo, che pensa, che progetta, che vuole benessere e sicurezza, che scappa. Un’analisi attenta che ci forza ad uscire dai nostri stereotipi antistorici. Si può parlare di Africa senza partire dalle guerre, dall'Aids, dal sottosviluppo, dalla miseria, ma dall'identità africana, imparando a coglierne il pensiero, le gioie e le speranze.
Le altre voci sono di giovani keniani.
Ascoltiamole
OTTIMIZZARE L'ANARCHIA
da un’intervista a Filomeno Lopes a cura di Simone Bernardi

Quali sono le aspirazioni di un giovane africano?
Quando tu pensi all’Africa, generalmente la consideri un continente alla deriva che non fa parte del mondo occidentale. Ne sei proprio sicuro? Come africano desidero stuzzicarti un po’, aiutarti a capire che quello che sembra così naturale non è lo poi del tutto e a prendere in considerazione che l’“occidente”, come concetto, dalle conquiste coloniali ad oggi di fatto è diventato un mondo dentro il quale sono presenti più mondi, nell’ “occidente” si sono catapultati l’Africa, l’Asia, l’America Latina. Dunque, quando si parla di “occidente”, bisogna capire che ci ritroviamo di fronte a qualcosa di molto esteso, frutto di tutto un processo che per noi africani ha significato qualcosa di drammatico, come la schiavitù e la colonizzazione, e che oggi ci vede in una realtà che ha delle angosce enormi, ma anche gioie e speranze.
Allora io africano, tu italiano, siamo, insieme, parte di questo mondo occidentale. Per questo oggi le aspirazioni di un ragazzo che vive in Africa sono esattamente le stesse di un giovane europeo: desidera prima di tutto vivere in pace, avere il computer… e le vorrebbe subito. D’altronde l’ “occidente” è una cultura e questa cultura dove si impara? A scuola. Ora, dalle elementari fino all’ultimo anno di università (per i più fortunati) impariamo le stesse cose che imparate voi, non cambia una virgola, anzi, di Africa ne studiamo quasi nulla. E poi c’è anche da noi la tv che funziona 24 ore su 24: vedi quello che anche tu vedi.

L’Africa è tormentata da guerre e conflitti locali. Ci sono vie di uscita?
All’inizio degli anni 90 c’erano almeno 16 conflitti in Africa, dei quali ne sono rimasti oggi 5 o 6 al massimo, tutti gli altri sono terminati. Coma mai sono finiti? L’Europa non l’abbiamo proprio vista, la comunità internazionale neppure, il che significa che gli africani hanno saputo comunque inventare strategie idonee per affrontare i loro problemi. Poi ci sono i casi più complicati, come ad esempio il Congo, in cui ci sono in mezzo tutte le potenze e siamo di nuovo lì: non è un problema tipicamente africano, proprio perché l’Africa non è più quella dei pre-africani ma ha l’Occidente dentro, con le sue strategie geopolitiche, per cui la soluzione di un conflitto diventa più problematica.

Quindi è la gente che si muove…
Continua a vivere nell’immaginario della gente lo stereotipo dell’africano che se ne sta sempre seduto ad aspettare i container e le soluzioni esterne. No! La gente dell’Africa, oggi, sta inventando dei meccanismi e delle strategie per risolvere i suoi problemi. Nella società africana ci sono tante persone che si battono quotidianamente per i diritti umani e civili. C’è una catena di nuovi movimenti in Africa, di giovani, di donne e degli stessi bambini. Poco tempo fa, nel mio Paese (la Guinea Bissau, dove si sono tenute recentemente le elezioni presidenziali, dopo ben 15 anni di continui colpi di Stato – n.d.r.) stava per succedere un’altra pazzia: ecco, sono stati i bambini che si sono organizzati e in cinquemila sono scesi in piazza a dire: “non vogliamo più guerra”. Ancora, sempre nel mio Paese, poiché lo Stato non ha i soldi per pagare i militari, pur di evitare dei disastri le donne si sono date da fare per trovare dei soldi per pagare sei mesi di arretrato, e in cambio hanno avuto la parola dei militari stessi che non si sarebbe sparso altro sangue.
C’è dunque tutta un’arte di creare delle soluzioni per fare ciò che è stato definito come “optimiser l'anarchie”, ottimizzare l’anarchia degli Stati africani, come diceva Cheikh Anta Diop, grande storico e politico africano del XX secolo. Sono le persone che davvero tengono in piedi una speranza, che reggono il baricentro, che lavorano come le formiche che non vediamo e ci passiamo sopra. Si parla tanto di “afro-pessimismo”, ma se non ci fossero le persone che instancabilmente cercano delle soluzioni, le cose potrebbero andare ancora peggio, invece ci sono una capacità e una volontà che sta crescendo, perché la sofferenza più che uccidere fa crescere, nel grembo di ogni morte rinasce sempre il desiderio della vita.

Ci puoi raccontare qualche esempio?
Porto un esempio di “strategia” di cui io stesso partecipo nel mio Paese, che ha le sue radici nell’animare le comunità al confronto. Oggi c’è una gioventù capace di mobilitarsi, di aprire dei dibattiti, ad esempio, con i militari sul significato di cittadinanza: “che cosa, tu che sei vestito da militare, pensi di avere più di me?”. Sono tutti passaggi impensabili anche solo dieci anni fa, ma la sofferenza ha portato, come dicevo, a cercare di ottimizzare l’anarchia degli Stati africani, perché oggi tutti i giovani sanno che non sono Stati, bensì dei pre-Stati, che purtroppo non sono liberi, quindi la libertà del nostro Stato dipende da noi, lo Stato siamo noi. Oggi la gente si mobilita per questo. Le più attive in questo sono ancora le donne, che hanno più coraggio, e quando una donna parla, da noi tutti ascoltano.
Allora quando da voi discutete delle donne africane, cercate di non limitarvi, ad esempio, al problema della infibulazione, parlate di ciò che fa sì che gli uomini e i figli di queste donne muoiono: cioè il problema del petrolio, dei diamanti, del coltan, etc., anche se sono problemi da cui voi traete di fatto dei benefici, e quindi preferite non metterli sul tappeto. Alle giovani donne del Congo, cosa gli vado a parlare di infibulazione?!
Poi è chiaro che per ogni giovane la cosa migliore da fare è andare da un’altra parte: “perché mi devo sacrificare io e i miei figli?”. Questo è profondamente umano, pertanto quando si parla di immigrazione bisogna tener conto che la questione non può essere affrontata esclusivamente da un punto di vista politico.

Chiesa in Africa e inculturazione. Cosa ci puoi dire?
Chi diventa sacerdote o vescovo o Papa non è un italiano o un africano, ma è un uomo di Dio. Dobbiamo infatti forse porre la questione in termini di pigmentazione? Se lo facessimo allora vorrebbe dire che per noi cristiani la croce non è più il punto numero uno, perché sulla croce Gesù ha bandito tutte le differenze. A me, come africano, interessa che tutti i cristiani, il Papa e i vescovi in primis, abbiano una coscienza mondiale volta a difendere la dignità di ciascun essere umano, il cui volto è fatto a somiglianza del volto di Dio: l’uomo è il cammino della Chiesa, come ci aveva insegnato Giovanni Paolo II.
In Africa abbiamo un grosso patrimonio che la Chiesa difende. Tanti missionari sono stati nominati vescovi, ma se uno è europeo o africano per noi è solo una chiacchiera: il vescovo è l’uomo di Dio, che ha il compito di dire alla gente dove la pioggia colpisce. Certo, se venisse un nominato vescovo un africano in una Diocesi italiana, in Italia potrebbe sembrare un po’ strano, ma per la gente di casa mia no.
Poi, sempre in merito alla questione della Chiesa che è in Africa: quando sentivo dire che il Cardinal Ratzinger era un conservatore - qualcuno mi ha anche chiesto cosa ne pensavo - ho sempre considerato che questi discorsi denotano un percorso della Chiesa che non ci appartiene o che noi non abbiamo ancora fatto. Non sappiamo se siamo conservatori o meno: siamo lì a lottare con la sopravvivenza e ancora a cercare di essere una Nazione, non abbiamo ancora alle spalle un lungo percorso di Chiesa interamente africana. Paolo VI ci disse: “siete maturi, ora dovete essere missionari di voi stessi”, ma è soltanto l’altro ieri. Però penso che la cosa importante è che i nostri vescovi pensino sempre che la loro è una responsabilità mondiale.

 

Leggi le mail da Kabiria Road (Nairobi)
a cura della redazione
da Nuovo Progetto giugno/luglio 2005

 

 

 

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