Anche il silenzio uccide, ma la storia non sta in silenzio

Publish date 27-01-2022

by Redazione Sermig

“Raccontare la tragedia del popolo armeno è una gioia, anche se la gioia è una parola che non ha nulla a che fare con la parola genocidio. Ma la uso ugualmente, perché avere qualcuno che ci ascolta rompe il lungo silenzio che dal 1924 in poi ha coperto ogni eco della nostra tragedia”.
La scrittrice Antonia Arslan racconta così ai giovani del Sermig il genocidio degli armeni da parte del governo turco tra il 1915 e il 1916 e costato quasi due milioni di morti. Successivamente, per impedire che il mondo si ricordasse di questo popolo fatto scomparire dalla terra, perfino le bellezze artistiche come chiese medioevali e manoscritti miniati sono state descritte come bizantini. Una cortina di silenzio che si è sparsa come un veleno su tutto il ‘900, permettendo il ripetersi della tragedia anche in altre nazioni, come è avvenuto per la Shoah.
“Non ha senso dire ‘facciamo memoria perché non succeda mai più’: questa è pura retorica. Invece, dobbiamo cercare di capire perché è successo e ciascuno di noi deve impegnarsi per non ripeterlo… Non bisogna pensare ‘io non lo farei mai’, perché in ognuno di noi c'é il massimo del bene e il massimo del male. Ognuno di noi è capace di tutto. Il bene e il male dipendono sempre da una scelta individuale. Ognuno deve mettersi davanti a se stesso e guardarsi. Perché ogni giorno è una scelta tra il bene e il male”.

Elisa Springer, sopravvissuta ai campi di sterminio: «Di solito tutte le favole iniziano con "C’era una volta"; la mia purtroppo non è una favola, ma inizia ugualmente così: c’era una volta una vita che avrei voluto vivere, ma un uomo di nome Adolf Hitler mi aveva impedito di poterlo fare; poi c’è stata una vita che avrei preferito poter dimenticare, ma non ci sono riuscita.
Oggi invece c’è una vita che mi obbliga a ricordare e a far ricordare. Perché sembra che la storia non abbia insegnato proprio nulla: l’uomo continua ad uccidere, le guerre continuano, guerre che secondo me non servono a nulla.
Servono solamente a creare tanti altri morti, a spendere miliardi nelle armi, miliardi che potevano invece servire per sfamare tanti poveri bambini e tanta povera gente di tutto il mondo. Auschwitz non era un campo di concentramento, era un campo di sterminio dove si faceva di tutto per farci morire.
Un giorno, durante un lungo appello, soltanto per aver fatto il gesto di sorreggere una mia compagna che stava per svenire in una fila accanto alla mia, l’ufficiale tedesco mi ha chiamato fuori dalla fila, si è assentato per un po’ e poi è tornato con un ferro rovente con il quale, davanti a tutte le compagne, come monito, mi ha fatto una bruciatura nella parte posteriore della coscia destra. Molte volte mi si chiede dove era Dio ad Auschwitz. Rispondo che Dio c’è sempre, Dio c’è dappertutto, non dobbiamo prendercela con Dio. Nel cuore di Dio c’è posto per tutti noi, ma oggi bisogna chiedersi nel cuore di quanti di noi c’è ancora posto per lui, per cambiare l’odio in amore. L’odio non serve a nulla, è come un grande fiume che quando straripa trascina con sé lungo il suo percorso tutto quello che incontra e poi l’uomo resta solo, si guarda intorno e si chiede come è potuto accadere.
Non è stato Dio che ha abbandonato l’uomo, è stato l’uomo che ha abbandonato Dio e che purtroppo continua a farlo. Quello che è accaduto nei campi di concentramento nazisti accade ancora oggi, anche se in forme diverse. Ci vorrebbe così poco per andare d’accordo tutti. Non bisogna mai odiare! Prima di tutto bisogna saper perdonare. Per poter amare bisogna prima saper perdonare, ricordare che un giorno noi tutti dovremmo essere perdonati. Se non perdoniamo non saremo perdonati nemmeno noi».

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