TIBET: la libertà è lontana

Publish date 31-08-2009

by Redazione Sermig


Si tende a parlarne solo quando il Dalai Lama, il suo più noto esponente, viaggia nei nostri Paesi. Ma in questa terra è in corso, da parte della confinante Cina, un sistematico tentativo di eliminarne popolo e cultura insieme.

di Claudio Tecchio

FERMIAMO LA DEPORTAZIONE!
Il Partito Comunista Cinese si è a lungo interrogato sulle ragioni della mancata “assimilazione” dei nativi in Tibet ed è giunto alla conclusione che senza una radicale riorganizzazione del territorio non è possibile cancellare l’identità nazionale tibetana.
Cultura tradizionale e religiosità diffusa si possono estirpare soltanto se si cambia radicalmente la vita quotidiana di pastori e contadini, se li si allontana definitivamente dalle terre d’origine concentrandoli in aree dove sia possibile la “ricostruzione controllata” di una identità finalmente compatibile con lo sviluppo socialista.
Nei mesi scorsi è stato così emanato un provvedimento che impone a tutti i tibetani che ancora vivono nei villaggi situati a ridosso delle grandi arterie di trasferirsi, a loro spese, nei “gulag” realizzati in zone facilmente controllabili dalle forze di sicurezza cinesi.
Dalle prime immagini dei confortevoli loculi (3 metri x 4, privi di elettricità e di acqua potabile, ma sui quali sventola la rossa bandiera del PCC!) deduciamo che si avvicina ormai la soluzione finale della questione tibetana.
Infatti accanto alle nuove “abitazioni” non c’è spazio per greggi ed armenti ed i tibetani saranno quindi costretti a svendere bestiame ed animali da cortile, loro unica fonte di sostentamento, prima di “trasferirsi” nei nuovi campi di concentramento.
Inoltre la baracca viene loro venduta a prezzi esorbitanti ed il ricavato della vendita del bestiame potrà forse servire per versare un piccolo acconto, ma per saldare il debito dovranno chiedere un prestito ad una banca cinese; prestito che difficilmente potranno mai restituire.
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Villaggio socialista
(Tibet Autonomous Region - P.R.C.)

Indebitati e disoccupati finiranno così per essere arrestati per morosità, mentre chi avrà osato sfidare l’ingiunzione governativa si vedrà radere al suolo la vecchia abitazione! E questo è solo l’inizio della deportazione di tutti i pastori, di tutti i contadini che ancora vivono nelle campagne del Tibet.
Se l’esperimento avrà successo, presto sorgeranno ovunque “insediamenti moderni” dove i nativi verranno “invitati” a trasferirsi pena l’arresto ed il sequestro di tutti i beni.

Ma nessuno ormai osa più denunciare i crimini commessi dalla cricca al potere e lo stesso Governo tibetano in esilio evita con cura di informare il mondo libero sulle deportazioni in atto. Le poche immagini pubblicate sul sito della BBC da un coraggioso reporter sono state presto rimosse per non irritare Pechino.
Dopo l’inaugurazione della ferrovia, che ha già portato in Tibet migliaia di nuovi coloni, oggi non possiamo assistere impotenti alla più grande deportazione di massa dai tempi di Stalin.

LA COMPASSIONE IN ESILIO
Nella Cina comunista pastori protestanti, preti cattolici, predicatori musulmani, praticanti della Falun Dafa sono oggetto di una vera e propria persecuzione e le loro istituzioni religiose ridotte ormai al silenzio.
Nel Tibet occupato, nonostante gli sforzi della propaganda di regime e l’imbarbarimento della vita quotidiana, la religiosità è ancora diffusa ed alimenta la rivolta contro l’occupante.
I monasteri, nonostante l’asfissiante controllo poliziesco, continuano a promuovere una cultura antiautoritaria inconciliabile con la dottrina comunista e alimentano la resistenza nonviolenta alla dominazione coloniale cinese.
Negli ultimi anni abbiamo quindi assistito ad una ondata di arresti, detenzioni arbitrarie, esecuzioni sommarie che nelle intenzioni di Pechino avrebbero dovuto definitivamente sradicare la cultura tradizionale tibetana.
Trulku Tenzin Delek, un religioso che ha speso la sua vita ad assistere i più deboli e ad educare i giovani cinesi e tibetani al rispetto della vita e della libertà, dopo un processo farsa è stato condannato alla pena capitale. Lo hanno accusato, senza alcuna prova, di essere un terrorista che tramava nell’ombra per separare il Tibet dalla “madrepatria”.

tibet2.jpg In realtà la sua popolarità era cresciuta al punto tale da rappresentare ormai una minaccia per la “stabilità sociale” ed andava quindi inflitta una punizione esemplare.
Solo dopo mesi di mobilitazione, solo dopo le dure prese di posizione di molti governi occidentali, la pena è stata poi commutata in ergastolo.
Mentre non siamo riusciti a salvare la vita di un giovane patriota tibetano, arrestato con lui e con lui accusato degli stessi “crimini”, che è stato assassinato con un colpo alla nuca dalla gestapo cinese.
E non sappiamo quale sorte sia toccata al più giovane prigioniero politico del mondo. Da tempo infatti non si hanno più notizie del ragazzo riconosciuto dal Dalai Lama quale reincarnazione di una delle più importanti autorità spirituali del buddhismo tibetano. Il Panchen Lama, da anni ostaggio dei cinesi, si trova con la sua famiglia in una località sconosciuta e nessun organismo internazionale è stato autorizzato a fargli visita.

Ma questi sono solo i casi più eclatanti e noti quindi all’opinione pubblica occidentale. È tra le mura dei monasteri, lontani da sguardi indiscreti, che i fanatici propagandisti del regime cercano di soffocare, con una vera e propria “campagna di rieducazione”, la sovversiva vitalità dello spirito buddhista.
Il Partito ha costituito “gruppi di lavoro” che hanno il compito di “educare al patriottismo” e di “estirpare le radici del separatismo” (e quanti non seguono con regolarità le sessioni di rieducazione o si rifiutano di sottoscrivere l’abiura vengono cacciati dalle istituzioni monastiche). Quelli che sono riusciti a fuggire, percorrendo a piedi intere catene montuose, ci descrivono le recenti “aperture” del regime comunista. Il solo possesso di una fotografia del Dalai Lama comporta oggi l’arresto o, nella migliore delle ipotesi, l’espulsione dal monastero.

Sono state anche decise misure ancora più restrittive per limitare l’influenza dei centri religiosi imponendo un assoluto divieto ai minori di 18 anni di accedere all’educazione religiosa, cacciando i monaci più anziani detentori di una inestimabile saggezza.
I commissari politici del Partito Comunista Cinese hanno poi infiltrato loro agenti nelle comunità religiose con il compito di controllare ogni momento della vita quotidiana dei monaci.
E quando i gerarchi non riescono, con questi mezzi così convincenti, a “normalizzare” la vita del monastero, procedono semplicemente alla sua distruzione. Infatti tutti i luoghi di culto “non autorizzati” possono essere rasi al suolo in qualsiasi momento senza nemmeno una comunicazione preventiva.

Ma se nel caso dei monasteri, da sempre centri di contropotere, è ”comprensibile” il furore repressivo, nel caso degli asceti solo l’isteria di qualche burocrate può invece spiegare l’accanimento con cui si infierisce su questi praticanti. Di recente ho appreso dal Dalai Lama che molti asceti hanno dovuto lasciare i ritiri montani in quanto non erano in grado di pagare la nuova tassa di “occupazione di caverna” (sic!). E dato che non intendevano continuare la loro pratica meditativa nelle galere cinesi, hanno cercato rifugio in località ancora più remote nella speranza di sfuggire all’arresto per “morosità”.
Questa è dunque la “libertà di culto” che i cinesi esportano con le loro disprezzabili mercanzie.
Su queste pratiche dovrebbe fondarsi la “società armoniosa” che verrà consacrata dai prossimi Giochi Olimpici.

di Claudio Tecchio
Campagna di Solidarietà con il Popolo Tibetano
da Nuovo Progetto marzo 2008
Vedi anche:
TIBET: la Marcia del ritorno

Per approfondire:
dossiertibet.it

Claude B.Levenson
Tibet, storia di una tragedia
Edizioni Lavoro

Piero Verni e Karma Chukey
Il mio Tibet
Chiara Luce Edizioni (video)

 

 

 

 

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