Thea Gilmore - John Wesley Harding

di Gianni Giletti - Sembra facile rifare un disco stupendo come John Wesley Harding, la musica è già li, le canzoni pure e sono fenomenali.
E invece no.
Confrontarsi con un mostro sacro come Dylan, pone seri problemi di autostima ad un musicista serio, che riconosca il valore di un fuoriclasse come Bob e il livello di un disco così.
Non solo, ma contrariamente a quanto si crede, realizzare delle cover richiede un notevole mazzo di idee nuove e vincenti, che possano stare a fianco agli originali senza avvizzirli e senza andar fuori strada. Allo stesso tempo, non si può farle troppo uguali, altrimenti perché il disco ?
Insomma, quello che voglio dire è che rifare un disco del genere vuol dire cercarsi dei guai.
Il disco di Dylan, edito nel 1967, celebra il ritorno del Menestrello di Duluth alle sonorità acustiche, che prediligeva all’inizio della sua carriera, partita circa 6 anni prima ed esplosa violentemente. Il tutto condito da una certa introspezione, dovuta, pare, al forzato riposo di Bob a causa di un incidente motociclistico avvenuto poco tempo prima.
Ma parliamo dell’autrice di questo disco.
Sguardo piuttosto inquietante, inglese con discendenze irlandesi – cosa che si sente prima di saperlo, perché le voci irlandesi sono inconfondibili - Thea punta sulla personalità e affronta questo disco con cipiglio fiero, conducendo lei il gioco. Arrangiamenti decisi, in linea con le idee acustiche dell’originale, ma senza esserne schiava.
Idee musicali ariose, produzione discretamente rockettara, la parte elettrica non è nascosta ma viene mescolata con sapienza all’ingrediente principale. E poi la voce. Davvero bella, calda, profonda, mai chioccia, timbro intrigante, a suo agio nei ritmi veloci e magica sui lenti, dove il sangue irlandese esce prepotente.
Insomma, davvero una scoperta per una cantante piuttosto sconosciuta.

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Thea Gilmore
John Wesley Harding
Fullfill 2011
 

La Musica che non c'è – Rubrica di Nuovo Progetto