Riparare la frattura tra Dio e l’uomo

Publish date 10-08-2012

by Ferruccio Ceragioli

di Ferruccio Ceragioli - È Dio che ci riconcilia con lui. La nostra risposta è accettare il suo amore restituendolo e ridistribuendolo nella società. “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23): così si esprime san Paolo. “Nessun vivente davanti a te è giusto” (143,2): così il salmista. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1Gv 1,8): così l’apostolo Giovanni. Perché queste citazioni all’inizio di questo testo? Perché per riparare la frattura tra Dio e l’uomo bisogna prima di tutto prendere coscienza che questa frattura esiste, è profondissima, anzi è un abisso e si chiama peccato. Il peccato è una evidenza, direi indiscutibile, del nostro mondo. Guerre, stragi, violenze di ogni tipo, umiliazioni, sopraffazioni, meschinità, vendette, abusi, ricerca dei propri interessi e indifferenza ai bisogni degli altri… E l’elenco potrebbe continuare. Tante cose attorno a noi ci mettono di fronte a questa evidenza, e spesso colpiscono più o meno da vicino la nostra stessa vita. Ma forse non è sempre facile riuscire a vedere tutto questo anche dentro di noi. È molto più comodo proiettare il male all’esterno e considerarci immuni da ogni contagio. Eppure il peccato è anche dentro di noi, anche noi abbiamo peccato, anche noi non siamo giusti davanti a Dio, anche noi non possiamo dire di essere senza peccato.

Ma che cosa è il peccato? Nella sua radice ultima, come ci testimonia il racconto di Genesi 3, il peccato è sospettare di Dio, è non credere al suo amore, è rifiutare la sua amicizia, è respingere la relazione d’alleanza con lui. Da qui, da questo peccato originale e originante, tutti gli altri peccati, che distruggono la relazione buona dell’uomo con se stesso, con gli altri, con la natura, con tutto quanto. E questo peccato non possiamo credere che riguardi solo gli altri e non riguardi noi stessi, ci siamo tutti dentro: “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32). Rendercene conto è già una grazia, è una grande grazia (i padri dicevano che conoscere il proprio peccato vale molto di più che saper fare miracoli), ed è anche la condizione di base per poter riparare la frattura che ci separa da Dio, perché ci fa gridare “pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nel tuo grande amore cancella il mio peccato” (Sal 50,3). Sì, perché non dobbiamo illuderci. Riparare questa frattura non è nelle nostre possibilità, è un compito che ci supera infinitamente. Anzi pensare di poterlo fare sarebbe solo aggiungere peccato a peccato, presunzione a presunzione. Perché del peccato siamo schiavi, che ce ne rendiamo o, peggio, che non ce ne rendiamo conto.

Paolo lo dice con chiarezza: “Quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato: chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,21-24). Ma che cosa possiamo fare allora? Possiamo invocare con il salmista: “Come pecora smarrita vado errando, cerca il tuo servo” (Sal 119,176). A queste parole del salmo si è ispirato Gesù per una delle sue più celebri parabole, che ben descrive la nostra condizione di peccatori. Noi siamo, ciascuno di noi è come una pecora che si è perduta. Si è allontanata dal gregge e soprattutto dal pastore, e adesso vaga per le montagne incapace di ritrovare la via dell’ovile. Forse la pecora si è anche ferita, forse è precipitata in un dirupo da cui le è impossibile tirarsi fuori.

E dunque la pecora è completamente indifesa, esposta alla fame, alla sete, al freddo, ai lupi: la sua fine è sicura, è ormai avviata verso la morte. Belare, cercare di chiamare il pastore è l’unica cosa che può fare, ma anche questo è pericoloso perché potrebbe richiamare l’attenzione dei predatori. Per la povera pecora non c’è alcuna via d’uscita. C’è solo una possibilità, ma è una possibilità che non dipende affatto da lei: bisogna che il pastore lasci le altre novantanove pecore nel deserto e vada in cerca di quella perduta finché non la ritrovi (cfr. Lc 15,4-7). Ma per nostra fortuna questa possibilità non è una remota eventualità, si è ormai già realizzata, una volta per tutte e per sempre. Il pastore si è messo a cercare le sue pecore smarrite e le ha trovate, ovunque esse fossero andate a cacciarsi, fosse anche nel punto più lontano dall’ovile che possa esistere.

E lo ha fatto non perché le pecore siano buone, ma perché lui è buono e vuole bene alle sue pecore. “Il buon pastore offre la vita per le sue pecore” (Gv 10,11). “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). Sì, la frattura tra Dio e uomo esiste, ma è già stata riparata. Da Dio stesso! “È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (Rm 5,19). Sull’abisso del peccato è già stato posato un ponte, un ponte che si chiama Gesù Cristo: a noi di attraversarlo. Perché Dio ha fatto tutto e fa tutto, ma non vuole mai fare senza di noi. “Colui che ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te” (Agostino di Ippona, Sermo, CLXIX, 13). E ci sono allora almeno due cose che possiamo fare.

La prima è lasciarci trovare, lasciarci salvare, lasciarci raggiungere dal pastore. Perché anche questo non è scontato. Così dice il Signore nell’Apocalisse: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Ma per cenare con lui, bisogna aprirgli la porta, perché la porta non si apre da sola. “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5). Zaccheo, pieno di gioia, accolse Gesù a casa sua: e io? “Presto, portate qui il vestito più bello, rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. […] facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”, dice ai servi il Padre della parabola (Lc 15,22-24). E noi: ci lasceremo rivestire dell’abito più bello, mettere l’anello al dito e i calzari ai piedi per fare festa con il Padre e tutti i suoi figli? Ho scritto “con tutti i suoi figli” volutamente, per introdurre la seconda cosa che possiamo fare per contribuire a riparare la frattura tra Dio e l’uomo. Scrive Giovanni: “Se uno dicesse: Io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore.
Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Se non cerchiamo di riparare tutte le fratture, a tutti i livelli e di tutti i tipi, che ci separano da tutti i nostri fratelli, anche la frattura con Dio non potrà rimarginarsi davvero. È come la parabola del servo spietato che, dopo aver ottenuto la remissione di un debito enorme dal suo padrone, non rimette un debito di pochi spiccioli a un altro servo. E il padrone gli dice: “Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” (Mt 18,32-33). Perdonati da Dio, possiamo e, per questo dobbiamo, perdonare ai fratelli...

NPSpecial – Riparatori di Brecce 6/8
Nel mondo di oggi si è approfondita una frattura tra uomo e Dio, tra politica e gente comune, tra giovani e adulti. Non è questo il mondo che vogliamo. Serve un cambiamento di rotta. Quando non si riesce più ad essere credibili, a dire una parola decisiva, quando anche le guide sono cieche, è tempo di guardare più alto e più lontano, è tempo di non fermarsi alla denuncia ma di “restituire”, è tempo di tornare a far vivere la profezia, è tempo di riparare le brecce. Non come tappabuchi, ma come ricostruttori di vita, di una vita piena di dignità. Il mondo si può cambiare!

 


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