L’abbraccio di Ruggero

Publish date 13-11-2012

by Francesca Fialdini

di Francesca Fialdini - Il racconto di un incontro speciale che abbatte muri e pregiudizi. La malattia mentale senza imbarazzo e con dignità.

Ruggero mi abbraccia forte e teneramente. Le sue braccia lunghe mi avvolgono da parte a parte, come cercando di farmi sentire protetta; la sua testa ricurva cerca la mia spalla, nonostante lui sia molto più alto di me. Per ricambiare spingo in alto le punte dei piedi e con la mano accarezzo la sua schiena di gigante buono. Chissà perché questo abbraccio, chissà perché Ruggero ha voluto farmi sentire sua amica. Minuti interminabili che sembrano voler durare ancora, e ancora. Apro gli occhi, vittima di tanta tenerezza, e con un sorriso mi dico che quel gesto è il più bel segno di accoglienza che potessi ricevere qui, nella casa S. Giuseppe a Roma: casa di ricovero e accoglienza dei buoni figli di don Guanella.

Ruggero è uno degli inquilini. La sua disabilità mentale è evidente ma non è il primo tratto che colpisce della sua figura, così goffa nei movimenti e nei suoni. Non lo è neppure in Adriano, in Beppe, in Casimiro, o in Giovanni che si muove in carrozzina e che vive qui da 60anni. Di lui nessuno più conosce la famiglia né si conosce qualche parente. “Capita spesso, è uno degli aspetti più complicati da gestire - mi dice don Pino - Molti dei nostri ospiti rimangono soli, perdono i genitori ed è facile che nessuno poi li venga più a cercare. C’è poi chi viene qui da regioni lontane...”. E sospendendo la frase intuisco che per molte di queste persone la casa non è che un ricordo lontano in ogni senso, e che tale dovrà rimanere per sempre. Non per Luigi però, che prima ancora di salutare racconta a me estranea, piombata all’improvviso nel suo spazio: “La prossima settimana vado dai miei amici!”. E mentre lo dice è felice. Si, una volta al mese qualcuno viene a trovarlo e lo porta a spasso. Lo porta nei luoghi dove lui è nato e cresciuto, perché l’ambiente del quartiere rimane un luogo familiare ai suoi occhi, in cui può provare ad esprimersi e a muoversi senza agitarsi troppo. Ma i casi come Luigi sono isolati.

La maggior parte rimane qui, in questo grande spazio immerso nel verde, dove ogni giorno vengono accuditi da professionisti del settore socio-sanitario. Istruiti e accompagnati nel recupero delle proprie capacità, grazie al lavoro di educatori che ne stimolano i talenti e li trasformano in disegni, opere di cartapesta, quadri, presepi e persino musical. “La vede questa? È un’auto di polistirolo, che loro hanno colorato e usato per interpretare Grease”, mi dice don Pino mentre attraversiamo i corridoi dell’Istituto. Ci tiene a mostrarmi ogni luogo accessibile in cui possiamo entrare con la telecamera senza disturbare, e mentre cammino respiro l’odore di pulito.

Ogni stanza è pensata per loro, in base alle difficoltà motorie oppure a quelle psichiche. Vede qui, a differenza delle altre stanze dedicate alla ricreazione ci sono pareti più vicine, dimensioni più piccole così i più giovani o i più agitati, si sentono in un ambiente custodito”. Sul muro, un attaccapanni con scritto sopra il nome di chi frequenta la classe; ciascuno ha il proprio posto e gli viene riconosciuto dagli altri. La palestra invece, luogo della riabilitazione, mi spinge ad essere poco discreta e a farmi i fatti loro, a gettare gli occhi ovunque sia possibile.Non posso evitare di lasciarmi interpellare dal tatto con cui gli infermieri e tutto il personale si rapporta ai buoni figli. C’è una dimensione umana che sovrasta e dona significato al rapporto medico-paziente. “Quest’anno abbiamo subìto tagli notevoli dalla Regione. La manovra e la crisi costringono a fare questo, ma noi abbiamo scelto di non licenziare nessuno” sottolinea don Pino, responsabile del centro di via Aurelia 446 da circa un anno.

Chi lavora qui e presta la sua opera è chiamato a unire l’aspetto professionale al carisma guanelliano, che fa degli ultimi i prediletti della Provvidenza. Che fa dei reietti della società – in altri tempi (a noi molto vicini) chiusi nei manicomi – la chiave di volta per comprendere appieno il senso della paternità di Dio. Ruggero mi segue da lontano, con un sacchetto di plastica in mano in cui nasconde la videocassetta di un vecchio film di Bud Spencer e Terence Hill.
Appena mi trova sola seduta in giardino, decide che è arrivato il momento di farmi sentire che cosa fa la differenza da queste parti, dove la sofferenza e la malattia abitano senza imbarazzo e con grande dignità. E, senza chiedermi nulla, mi stringe tra le braccia.


Speciale – LACRIME CON LE BRACCIA APERTE 3 / 8

Il dolore subìto e il dolore accolto, il dolore condiviso e il dolore disperato, il dolore del corpo e il dolore dell’anima. L’esperienza dell’uomo di ieri e di quello di oggi. Giovani e anziani, poveri e ricchi, forti e deboli: tante risposte, la stessa ferita, in ogni angolo del mondo. Un viaggio dentro le pieghe e le contraddizioni del più grande tabù dell’umanità, una ricerca di senso che può incontrare la speranza.

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