I cocci della precarietà

Publish date 31-08-2009

by Rosanna Tabasso

“Chi rompe paga”: ma è ancora così? Oggi spesso chi rompe lo fa nell’anonimato, nell’indifferenza generale o, peggio, nella convinzione che è l’unico modo per stare a galla. Chi rompe non è più una singola persona, ma un sistema economico, uno stile di vita generalizzato, una politica irresponsabile. E a pagare restano i più deboli, i più poveri, i più sensibili, e i giovani. L’Arsenale della Pace, come una grande arca, imbarca ogni giorno gente in cerca di rifugio, di un po’ di pace, di qualche certezza.

di Rosanna Tabasso

Difficile dire chi oggi sia il più povero di certezze. Ci sono casi emblematici, ma sono spesso la punta dell’iceberg e rivelano sempre un disagio profondo, esteso, preoccupante. In questi giorni per esempio non posso dimenticare la ragazza africana in preda a turbe psichiche che si dimena cercando di allontanare le minacciose voci che le rimbombano nella testa. Per cacciarle a volte si scaglia contro il primo che le si presenta davanti e l’aggredisce con rabbia. Non ha terra, non ha legami, non ha casa - chi può fare qualcosa per una malata psichica senza soggiorno, aggressiva? Vive la strada, un angolo di piazza come una casa, sentinella di se stessa. Un giorno l’abbiamo accolta, poi ha aggredito altre donne, le volontarie e con il cuore stretto abbiamo dovuto cedere all’impotenza.

Casi così ne incontriamo ormai continuamente, italiani e stranieri, giovani e vecchi, persone facoltose e poveracci accomunati dal male di vivere, quasi un inconscio rifiuto di sottostare alle regole troppo strette imposte alla nostra mente, al nostro cuore, al nostro corpo. Vorrebbero dirci, questi amici, che bisogna cambiare i parametri del nostro vivere, ma non trovano le parole e ce lo dicono con il loro male. Se avessimo tempo, energie e volontà di ripartire dal più debole, forse potremmo fare qualcosa per rendere il nostro tempo vivibile per chi è diverso e per le famiglie, quando ci sono.

casa_precaria
precari_stanca Le famiglie. Ecco un altro ambito di fatica, oggi ancora più esteso a causa della crisi economica. Ho in mente una famiglia che conosco da anni. Albanesi fuggiti dalla loro terra durante la guerra del Kossovo, per curare uno dei loro figli cui la scheggia di una bomba aveva spappolato una gamba. Il ragazzo la gamba l’ha persa, ma tutta la famiglia ha vissuto la speranza di poter ricominciare a vivere grazie al lavoro. Un buon lavoro portato avanti con impegno da parte del padre e la disponibilità della madre a integrare con ore di pulizia nelle case. Ma ora la fabbrica ha chiuso, il padrone l’ha lasciato a casa con le lacrime agli occhi perché lavorava bene. Improvvisamente di nuovo il buio davanti. Gli anni sono passati e non è più giovane, difficilmente troverà altro lavoro.
È la condizione di migliaia di famiglie italiane e straniere che oggi… non vivono con sei-settecento euro al mese. Gli affitti corrispondono alla metà di uno stipendio normale e con il resto bisogna pagare le spese, mangiare, mandare i figli a scuola, vivere insomma. Ascoltando le famiglie, anche quelle che hanno un alloggio di proprietà e che hanno stipendi un po’ più alti, tutte vivono l’ansia di non arrivare più a fine mese con i soldi, l’ansia di non riuscire più a tenere da parte un po’ di denaro per le emergenze; sanno di non essere povere, ma si rendono conto che lo potranno diventare, pur avendo la casa e la macchina. Lavorano in due e con due stipendi ce la fanno appena ma sanno che basterà che uno resti a casa, che aumenti il tasso del mutuo, che si rompa la macchina e la sicurezza su cui hanno poggiato fino ad ora vacillerà. E l’ansia è ancora più forte, perché a differenza di tanti che hanno già conosciuto la povertà, questi sono nati e cresciuti negli anni del boom economico e non hanno mai dovuto privarsi di nulla. Un sistema di vita tutto da ripensare.

E la precarietà non sempre unisce la famiglia; molte volte l’impossibilità di avere tutto ciò che siamo stati abituati ad usare in modo naturale, l’impossibilità di offrire ai propri cari il benessere di un tempo fa crescere l’impotenza, il senso di inadeguatezza, la disistima di sé, le accuse, le incomprensioni. E i legami si incrinano.

I giovani, poi, li abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e li portiamo nel cuore sempre, perché subiscono tutte le contraddizioni di questo tempo storico instabile. Cresciuti nel benessere, sono sempre stati al centro delle pressioni del consumismo; la pedagogia con cui sono stati educati è stata caratterizzata dalla totale assenza di dinieghi, di sacrifici, di regole: se ti piace compralo, se vuoi vacci, se non hai voglia non farlo... Così noi adulti ci facevamo perdonare per la mancanza di tempo da dedicare loro, per l’incapacità a comunicare quell’amore che rassicura e rafforza. Ora anche i giovani avvertono le incertezze del futuro e reagiscono come sono stati abituati a fare sempre: musica a manetta, mode e riti collettivi, eccessi, violenza liberatoria. E su tutto ancora una volta regna la solitudine profonda, la mancanza di comunicazione, il non poter esprimere a nessuno il terremoto che si portano dentro. affittasi
Così succede sempre più spesso che un ragazzo di diciotto anni cerchi il suicidio per scappare via da questo mondo che non ce la fa più ad affrontare. Nuovi modelli educativi propongono di passare dal permissivismo di prima al pugno di ferro. Non si pongono ancora una volta il problema di cambiare lo stile di vita di noi adulti, di ripensare noi stessi come modelli per i nostri ragazzi, di provare a conoscere il loro mondo segreto, le loro paure, di educarci all’ascolto. Così si passa da una contraddizione all’altra e i giovani restano sempre più soli. Ci sono ancora ragazzi - ne ho in mente una di quindici anni che ho conosciuto quest’estate - che si sentono di spendere la loro vita per gli altri, che vogliono cercare di cambiare il mondo e spesso si trovano i genitori contro. Contro, perché non frequentano discoteche, contro perché d’estate vorrebbero venire al Sermig: “ti riempiono la testa”, dicono spesso i genitori, e li ostacolano. Quasi che oggi si debba diffidare anche della solidarietà, del servizio ai più deboli.
noi_precari Potremmo continuare a pennellare questo quadro di particolari, ma la sostanza non cambierebbe. Forse però la precarietà più grande che si avverte è la lontananza da Dio, non avere un tu cui alzare lo sguardo ed ancorarsi quando tutto attorno è buio e confusione. Difficile dire chi oggi stia peggio, ma chi non ha un orizzonte aperto, chi sta chiuso nel suo presente incerto e in un futuro vago, non sa davvero cosa fare. Chi si è lasciato avvicinare da Dio ed è arrivato alla fede non è sicuramente esonerato dai problemi, ma trae forza dall’aver sperimentato che Dio gli è vicino, soprattutto quando tutto si fa difficile. Ha trovato un’ancora contro le tempeste che vogliono portarlo alla deriva, una verità che libera dalle menzogne del potere e dell’interesse, una speranza che rialza dopo ogni caduta.

di Rosanna Tabasso
da Nuovo Progetto novembre 2008

“Ripartire dai poveri”
Presentato lo scorso mese di ottobre da Caritas italiana e Fondazione Zancan, il Rapporto 2008 su povertà ed esclusione sociale (Mulino Ed.). Da 15 anni il 13% della popolazione è costretto a sopravvivere con meno di metà del reddito medio nazionale, ovvero 500/600 € al mese. A rischio almeno 900.000 famiglie (tra cui un terzo delle famiglie con 3 o più figli): una delle percentuali più alte in Europa. Al Nord aumenta la povertà degli anziani soli o non autosufficienti: dal 2005 al 2006 tra gli ultra 65enni soli è passata dal 5,8% all’8,2.

Vedi anche:
Salvare il mercato da se stesso
LA STORIA INSEGNA
Economia in pillole
CRISI: scegli la tua meta
Ripartiamo dal NOI

 

 

 

 

 

 

 

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