ARMI: import-export

Publish date 31-08-2009

by sandro


Basta non essere belligeranti se si vuole deregulation nell'export di armi? Una sequenza apparentemente innocua nell'imminenza dell'attacco USA all'Irak: l'ho vista in Tv. Con tutta probabilità era aggiornata. E mostrava due uomini che chiudevano la saracinesca di un negozio di Bagdad, davanti a loro era appena uscito un bimbo di 5-6 anni con in mano un fucile (giocattolo?).

... Corrado Avagnina

 Certo, mi ha fatto impressione. E mi ha riportato, con i pensieri, non solo al conflitto in atto in quella terra complicata e sfortunata, ma anche a qualcosa di più... nostrana.
Sì, mi ha richiamato alla mente lo stravolgimento che si sta profilando per allargare le maglie della legge 185 del '90 che regola il commercio italiano di armamenti. Una normativa severa, questa. Che - pur non essendo perfetta - ha fatto onore al nostro Paese, fino a ieri. Adesso sembra essere messa in forse dal modo con cui il Governo italiano recepisce un accordo europeo. Abbassando i controlli.
La questione, delicatissima e cruciale, è al passaggio parlamentare. Si sono già levate tante voci preoccupate ed allarmate. I missionari, in particolare, dal Terzo mondo martoriato da guerre che non fanno notizia, temono che l'Italia rientri nel circuito deplorevole del commercio di armi, senza vincoli. "Paesi che sono o sono stati in guerra come l'Angola, la Liberia, la Somalia, il Congo o la Costa d'Avorio riescono - scrive, su Italia Caritas sr. Patrizia Pasini, della Commissione "Giustizia e pace" Missionarie della Consolata - a comprare armi sofisticate e pericolosissime, che servono a sminare morte e spesso finiscono in mano a gente senza scrupoli o, cosa ancor più terribile, a bambini costretti a combattere da soldati.
In nazioni ridotte alla fame come Eritrea, Etiopia, Guinea Bissau, dove si vive con meno di un dollaro al giorno, si comprano armi, mine, spesso attraverso contratti definiti di aiuto e di cooperazione: ti mando riso, ti scavo un pozzo, ti faccio una strada, ma tu devi comprare da me tecnologia, medicine, armi o altro...".
Per porre un freno credibile a questo andazzo penoso - di cui quella sequenza televisiva da Bagdad mi è parso un emblema - la legge 185 ha fornito strumenti adeguati. Ora con il varo in atto da parte del Senato (la Camera si era già pronunciata a giugno 2002) le profonde modifiche alla normativa sull'import-export bellico nel nostro Paese cambieranno le carte in tavola, "favorendo chiaramente le lobby dei fabbricanti e commercianti di armi" (sr. Pasini).
Infatti non dovrebbe più essere possibile aver informazioni dettagliate sul valore delle esportazioni di armi. Così come non sarà più di dominio pubblico il certificato di uso finale dei materiali esportati (cioè la reale destinazione del pezzo o del sistema d'arma). Neppure si potrà mettere il naso sulle transazioni bancarie in merito a questo tipo di export. Già l'anno scorso, pure il presidente del vescovi italiani, card. Camillo Ruini, aveva alzato la voce perché la ratifica dell'accordo internazionale "non comporti l'attenuarsi dei controlli sul commercio delle armi".
L'Italia sembra andare in altre direzioni. Preferisce la deregulation. In un tempo in cui il diritto della forza si sta imponendo alla grande, in barba alla forza del diritto.
L'Italia se non allarga le maglie per esportare armi si rende complice di un sistema che sa sempre più di giungla, a troppe latitudini. Con la scusa o con il pretesto di far girare - da noi - la produzione, in barba a quanto potrà determinarsi - tra poveracci assortiti nel terzo mondo - al punto finale di destinazione dei prodotti di guerra e di distruzione.
E non si pensi che queste annotazioni sanno di depistaggio... Quando sono di scena gli armamenti, ce n'è per tutti. Anzi tutti dovrebbero farsi l'esame di coscienza.
 
Corrado Avagnina







This website uses cookies. By using our website you consent to all cookies in accordance with our Cookie Policy. Click here for more info

Ok