Alberto Ramella: Per una volta davanti all’obiettivo

Publish date 31-08-2009

by Claudio Maria Picco


Alberto Ramella con i suoi scatti è sulle pagine dei giornali da molti anni. Ha immortalato profughi del Kosovo, calciatori della Juve e del Toro, personaggi del jet-set e povera gente. Insieme a Paolo Siccardi è titolare di Sync Studio, agenzia fotografica con sede a Torino e contatti in tutto il mondo. Nuovo Progetto gli deve molto, anzitutto per i suoi insegnamenti.

di Claudio Maria Picco


Possiamo farti una foto? Pensavo che non avrebbe accettato di stare dalla parte sbagliata dell’obiettivo. Invece sorride, si gira verso di noi quasi a dirci: dai, tirate fuori la macchina che la facciamo. È lui stesso ad accendere le luci e a mettersi in posa.
Lo abbiamo conosciuto anni fa quando i soccorritori avevano accompagnato all’Arsenale della Pace un tossicodipendente caduto nel fiume che scorre lì vicino. Da allora siamo rimasti in contatto. Alberto è un fotografo affermato, ha lavorato per tanti giornali, italiani e stranieri, è stato nei teatri di guerra di mezzo mondo, è il fotografo ufficiale del Teatro Regio e non ama definirsi fotoreporter.
Reporter è uno che va e riporta delle cose - dice - invece il fotografo è uno che cerca di cogliere le cose un po’ dietro la facciata dell’avvenimento. Il punto è: fotografo il palazzo che crolla o gli occhi di quello che sta guardando il palazzo che crolla? Il palazzo che crolla lo riprende la televisione, che coglie in diretta il movimento. Il fotografo fa un lavoro più legato alla psicologia, un lavoro che sta leggermente dietro le quinte dell’avvenimento, che cerca di capire perché”.
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Alberto Ramella

Siamo seduti in una sala del suo studio. L’ambiente è essenziale. Sono colpito da una delle tante foto appese al muro che ritrae il volto di un atleta. Alberto racconta di essere stufo che “…la professione del fotografo sia ammantata da un mito inutile e un po’ fasullo: si deve per forza essere dei guerrieri, degli eroi; invece, per quanto abbia delle implicazioni umane, quello del fotografo è un lavoro come tutti gli altri, legato soprattutto alla professionalità”.
Lui è figlio d’arte, anche se non ha cominciato subito con la professione paterna. Dopo la morte del padre fotografo in Pakistan, fa per alcuni anni l’impiegato, finché un giorno ne ritrova lo zaino con la macchina fotografica. Capisce che quello sarà anche il suo mestiere.

Gli chiedo quante foto bisogna fare per trovare quella giusta: “Non vuol dire, dipende. A volte la foto è frutto del caso, della fortuna, a volte è frutto di una ricerca lunga. Poi non è detto che le foto che usano i giornali siano quelle migliori. In molte situazioni il giornale è una gabbia di matti in cui devi costruire 80 pagine dalle tre del pomeriggio alle 10 di sera; puoi immaginare il caos dentro la redazione. A volte si prende la prima del mucchio, a volte si dispone di una foto talmente convincente che viene subito apprezzata”.

Gli chiediamo come è cambiato il mondo della fotografia con l’avvento del digitale. “È cambiato tantissimo, perché dà la possibilità di disporre subito delle fotografie. Prima c’erano i rullini da sviluppare, poi c’è stato un periodo in cui i rullini bisognava scansionarli. Adesso con il digitale il pallone è ancora in rete che dal campo di gara già spediscono ai giornali la foto del gol appena fatto. Si è creata una situazione che dà la possibilità a qualunque fotografo di accedere a tutti i giornali. In pratica però ha dato l’accesso alla professione a personaggi che secondo me non hanno la cultura della fotografia e la conoscenza delle cose, anche se poi i giornali commissionano dei servizi fotografici per cui non serve nessuna conoscenza. Oggi ci sono tanti fotografi, il mercato si è molto allargato e allo stesso tempo ristretto a livello economico. C’è moltissima concorrenza, però io ritengo che chi ha veramente la capacità di fare le cose in un certo modo alla fine riesce a continuare a galleggiare”.

A questo punto è inevitabile un accenno ai fotografi che vanno a caccia di scoop e di scandali. Le considera fotografie a livello di gossip: “È evidente che se queste fotografie sono pubblicate e pagate un sacco di soldi vuol dire che hanno dietro un mercato di gente che le vuol vedere, gente che non si chiede chi sono io, da dove vengo, dove vado, ma pensa solo a queste piccole cose del momento. Ci sono dei fotografi che vivono per questi cosiddetti scoop; se li organizzano con uno stuolo di personaggi che collaborano nel sottobosco con loro, mentre ci sono altri fotografi, come me per esempio, che queste cose non le fanno. Anche se devo ammettere che questi servizi legati al gossip, anche non scandalistico, alla fine sono quelli che purtroppo rendono di più dal punto di vista economico. Il motivo è legato alla stupidità del mercato. Viviamo in un mondo in cui si è perso completamente il senso dei valori ed esiste solo più il senso del consumo. I personaggi sono la punta dell’iceberg del consumo. Se in questo momento avessi un servizio su quelli che hanno fabbricato le scarpe tricolori di Chiambretti, lo venderei quattro volte. Queste sono le notizie più ricercate dalla cronaca”.

Ma allora ad un giovane fotografo cosa consiglia Ramella? “Prima di tutto gli farei gli auguri, perché non è che ci siano molti spazi. Consiglierei comunque di badare alla qualità che alla fine è l’unica cosa che paga”.
Alberto Ramella è proprio così, un po’ controcorrente, come quella volta in Kosovo: “C’era una bambina vestita d’azzurro che piangeva, teneva in braccio un cagnolino appena morto, c’era una bella luce. Sarebbe stata una bella foto sia dal punto di vista estetico che emotivo. Non me la sono sentita di fotografarla. Un’altra volta nella ex Jugoslavia c’era una signora in lacrime davanti alla sua casa distrutta dalle bombe; mi ha chiesto di non farle delle foto e io non le ho fatte, anche se sarebbero state assolutamente significative. Altre volte in altre parti del mondo persone testimoni di misfatti mi hanno chiesto loro di essere fotografate”.

Racconta poi il funerale degli operai della ThyssenKrupp: decine di fotografi avevano martellato con i flash i parenti delle vittime per tutta la cerimonia, ma lui aveva fatto solo quelle poche foto che servivano. “Questo ti dà da pensare, come l’etica sia importante - dice -. Prima dei soldi, prima di fare la foto, prima del fatto che devi tornare ad ogni costo con la foto, ci deve essere un’etica”.
Di etica ce n’è ancora in questo lavoro? “Secondo me sì, qualcuno ce l’ha, qualcuno non ce l’ha per scelta. Ci sono dei fotografi che sono dei banditi, persone senza scrupoli che per una foto farebbero qualunque cosa. Ce ne sono altri che invece hanno un’etica umana rispetto alle cose che fanno, come nella vita. Siamo alla fine, ma non demorde.

“Pensavo che mi chiedeste qualcosa di più serio del tipo: tu credi in Dio?”.
A noi sembrano cose serie quelle che ci hai appena raccontato, però se vuoi: credi in Dio? “Certo che credo in Dio! Non credo in tutto ciò che l’uomo ha costruito falsamente intorno a Dio per la convenienza di pochi, e questo ci riguarda tutti”.

Info: sync-studio.com

 

 

 

 

 

 

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