AFGHANISTAN: Noorzia che non si arrende

Publish date 31-08-2009

by sandro


“Se non smetti di fare campagna elettorale per Noorzia Charkhi, la tua vita è in pericolo. Dì anche a Noorzia Charkhi di ritirare la sua candidatura”.

di Maria G. Di Rienzo

Il biglietto fatto scivolare sotto la porta di casa di Mahmoud Shah è vergato in una calligrafia nitida e aggraziata: “Se non smetti di fare campagna elettorale per Noorzia Charkhi, la tua vita è in pericolo. Dì anche a Noorzia Charkhi di ritirare la sua candidatura. Non ti vergogni ad appendere al bazar manifesti che rappresentano le donne della tua famiglia?”. Mahmoud è un cugino di Noorzia Charkhi, una giornalista trentaseienne che lavora a Kabul.
 Noorzia fa parte delle 328 donne afgane che hanno presentato la loro candidatura per i 68 posti riservati alle donne nel Parlamento nazionale e spera di essere eletta nella sua provincia, Logar. Le elezioni si terranno il 18 settembre 2005, e vi sono altre 237 candidate che si sono presentate per i seggi dei consigli provinciali.
“Non intendo ritirarmi, ha dichiarato pubblicamente Noorzia, so che la mia vita e le vite dei miei familiari sono in pericolo, la gente che ha minacciato mio cugino e me ha già le mani sporche di sangue, ma voglio dimostrare che una donna è capace di fare queste cose”.

Il maggior oppositore di Noorzia è un suo lontano parente,
anch’egli candidato alle elezioni. In un recente raduno tribale costui ha dichiarato che la candidatura di Noorzia è una vergogna e che qualcuno dovrebbe ucciderla.
All’epoca del regime talebano, era un potente ufficiale agli ordini del governatore della provincia, suo cognato, che oggi è latitante. “Durante il periodo dei Talebani, racconta Noozia, costui dava la caccia alle donne per strada con la frusta in mano. In qualche modo, lo sta ancora facendo”.
Il riservare delle quote alle donne nei seggi ha fornito un incentivo a sostegno delle candidature femminili, spiega Rina Amiri, una funzionaria dell’Onu che sorveglierà il regolare svolgimento delle elezioni. “C'è sostegno da parte di alcuni uomini, non moltissimo, ma molto di più di quanto ci saremmo aspettate”. Ci sono però anche le telefonate e le lettere anonime che minacciano di morte le donne candidate qualora non si ritirino.
Nella provincia di Helmland, i funzionari dell'Onu stanno investigando su missive che circolano promettendo 4.000 dollari di compenso a chiunque uccida una candidata; nella provincia di Zabol, uomini armati hanno tentato di sequestrare Zarmina Pathan, candidata alle elezioni e impiegata in un'organizzazione umanitaria locale, mentre era alla guida della sua auto.

Non è che il numero di candidate sia così vasto, se si pensa che sono il 12% di chi concorre per il parlamento e l'8% di chi concorre per i consigli provinciali. Nella provincia di Paktika si era candidata una sola donna, un'insegnante di villaggio che aveva affrontato un viaggio faticoso per registrarsi nel capoluogo di provincia, e che quattro giorni dopo lo ha rifatto per cancellare la propria candidatura: un gruppo di pii religiosi aveva fatto il giro del suo villaggio spiegando che quella candidatura era
inopportuna, e un bel po' di devoti avevano raccolto il messaggio ed aggredito verbalmente suo marito.

Zobaida Stanekzai, una direttrice scolastica di 52 anni, dice che ha pochi dubbi sul perché qualcuno, pochi giorni fa, abbia dato fuoco alla porta di casa sua: “Tentano di spaventarmi perché rinunci alle elezioni. L'anno scorso, quando lavoravo alla registrazione delle donne per le elezioni presidenziali, tirarono una granata contro la mia casa. Ma la mia decisione di candidarmi è irremovibile”.

Strano, non è vero? Molte persone continuano a dirmi che alle donne in genere queste cose non interessano, e alle musulmane meno che mai, loro si realizzano nella maternità e siamo noi ad insistere con queste ossessioni occidentali per la parità e la partecipazione e il voto, ed è una vergogna (proprio come candidarsi) non rispettare la loro cultura. Che l'Afghanistan sia un caso a parte?

Allora andiamo in Pakistan, dove in questi giorni 170 donne rischiano la vita per essersi candidate alle prossime elezioni. Non che costituzionalmente non possano farlo: ma due governi regionali hanno emesso un bando che vieta loro di candidarsi e di votare. Perché È inopportuno, “vergognoso”, scandaloso. E queste ostinate resistono. Può essere che anche il Pakistan sia un'eccezione.

L'Arabia Saudita non è certamente un luogo molto favorevole alla partecipazione femminile nelle decisioni pubbliche (perché è di questo che si tratta: il poter intervenire in decisioni che interessano le vite di tutte e tutti), è un Paese in cui, fino a pochi anni fa, per le bambine non veniva neppure redatto il certificato di nascita: le donne commercianti hanno fatto pressione per anni per poter votare ed essere elette nei consigli d'amministrazione delle camere di commercio, oggi hanno finalmente
ottenuto, per la prima volta, questo diritto.

In questi stessi giorni, un gruppo di donne palestinesi ed israeliane hanno dato vita alla Commissione Internazionale delle Donne. Dicono che vogliono più donne nei luoghi dove si prendono le decisioni, più donne che partecipino ai negoziati per la pace. Dicono che sono abili nel comporre le differenze, lo dimostra il loro stesso stare insieme, e sostengono che la Commissione sarà un veicolo per il cambiamento, un cambiamento nella situazione di conflitto che esse ritengono di assoluta urgenza.

Bene, più ci guardiamo in giro, più sembra che alle donne queste cose interessino. Forse, più che di un'ingerenza occidentale, potremmo cominciare a parlare della necessità di essere trattate, viversi e vedersi come compiuti essere umani. Credo che questo bisogno sia largamente “internazionale”.
Il 19 luglio scorso c'è stata una manifestazione nel centro di Baghdad. Erano centinaia di donne, di tutte le appartenenze, compresa una dozzina di dichiarate seguaci di Moktada al-Sadr (fondamentalista sciita), che protestavano contro l'esclusione dei loro diritti umani dalla Costituzione che viene preparata per il Paese. L'articolo 14 le subordinerebbe infatti alla religione, setta o gruppo di riferimento: una donna erediterebbe o no, potrebbe scegliere il proprio marito o no, potrebbe essere data in moglie a 9 anni o no, divorzierebbe o no, si troverebbe in relazioni poligame o no, a seconda di cosa i saggi uomini della famiglia decidano (mi sorge un dubbio: visto che le famiglie irachene esistenti spesso sono “miste”, ovvero il marito è di un gruppo e
la moglie di un altro, come questa legge gestirà le eventuali questioni che
dovessero sorgere in ambito familiare?).

Naturalmente agli uomini questa discriminazione dell'articolo 14 non si applica. Loro i diritti umani e civili li hanno incorporati e li ritengono assoluti: diventano relativi solo se devono essere riferiti alle donne. “Non vogliamo leggi separate, leggi sunnite o leggi sciite, ha dichiarato Dohar Rouhi, presidente dell'Associazione delle donne imprenditrici e presente alla dimostrazione. Vogliamo una legge che possa essere applicata a tutte e tutti. Vogliamo giustizia per le donne”.

“I diritti umani delle donne devono essere garantiti dalla nuova Costituzione, ha aggiunto Hannah Edwar, una delle organizzatrici della protesta. Intendiamo incontrare il comitato costituzionale e far loro sapere come la pensiamo”. Sembra che dobbiamo prenderne atto: alle donne la politica interessa.

Le amiche irachene mi hanno mandato le foto della protesta. “Vogliamo uguaglianza per tutti. Vogliamo diritti umani per tutti”, dice uno striscione bianco retto dalle donne a Baghdad. “Fermate la violenza contro le donne irachene”, recita un altro. E guardando quest'ultima immagine all'improvviso il mio cuore ha un tuffo di gioia, e sorrido fra me, e mando a quelle due persone sconosciute un profondo pensiero d'amore. Perché il secondo striscione lo stanno reggendo un uomo e una donna.

Maria G. Di Rienzo
dal foglio quotidiano “La nonviolenza è in cammino”

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Vedi scheda Afghanistan



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