Senza dire una parola

Publish date 17-10-2015

by Flaminia Morandi

Yevgeny Chubarov, Opera dedicata alle vittime della repressione, Art Muzeon Sculpture Park, Moscadi Flaminia Morandi – Quando si viene a sapere ufficialmente di un lager, un gulag, un campo profughi, ogni volta la meraviglia: come è potuto accadere?
Eppure continua a ripetersi, identica, la stessa barbarie, ma ancora non trasmessa dalle televisioni, quindi ancora non riconosciuta come reale, non ancora capace di commuovere. Non c’è secolo della storia dell’umanità immune dall’orrore e dalla violenza dell’uomo sull’uomo. Lottare perché non accada più è compito di ogni uomo di buona volontà; ma il cristiano ha un compito in più.

Dietrich Bonhoeffer era un giovane protestante di buona famiglia, che si era battuto come poteva contro l’instaurarsi del regime nazista. Era finito in un lager. Ha capito presto che per resistere alla degradazione bisognava attaccarsi ai gesti del rispetto di sé: continuare a lavarsi, vestirsi, ordinare la stanza, studiare, pregare, scrivere. Le lettere che ha lasciato, alla fidanzata molto più giovane di lui, aiutano noi, liberi, a credere.

Pavel Florenskij era un matematico, teologo, filosofo russo, prete ortodosso, cinque figli, un genio scientifico pari a Leonardo da Vinci, uno che con calma disinvoltura si presentava in abito talare agli incontri accademici in pieno regime sovietico quando era vietato indossarlo pubblicamente. Era stato mandato nel gulag più famigerato all’estremo nord del Paese, le isole Solovki, dove l’unico contatto con il mondo esterno era stato per lunghi anni la corrispondenza con la moglie e i figli. Eppure, in quell’inferno ha fatto importanti ricerche scientifiche, ha scritto lettere su cui oggi riflettiamo e piangiamo, ha lasciato nei compagni di prigionia il ricordo di una tenera benevolenza verso tutti e di una ricchezza profonda dell’anima.

Nicu Steinhardt era uno scrittore e un critico d’arte romeno, ebreo, che si era rifiutato di aderire al comunismo ed era finito in una prigione. Lì aveva fatto gli incontri più straordinari della sua vita, e stretto le più belle amicizie: con uno ieromonaco ortodosso e due preti greco cattolici. Una sera, issato sui letti a castello, aveva ricevuto dalle loro mani il battesimo con un po’ di acqua sporca. Aveva letto quell’evento come la sua consacrazione alla causa dell’ecumenismo, perché la divisione è lo scandalo più grande. Ci ha lasciato una sconvolgente testimonianza dal carcere dal titolo paradossale e profondo: il Giornale della felicità. Nessun carcere al mondo, nessun dramma, nessuna malattia può togliere a un cristiano la gioia segreta: l’unica testimonianza capace di convertire senza dire una parola.

Cristo non è venuto a portare pace sulla terra, ma un fuoco che brucia come un roveto ardente capace di cambiare la faccia del mondo, ma in un modo che non si vede con un occhio carnale, e che si chiama trasfigurazione.
La trasfigurazione comincia con l’amore: non quello che fa battere il cuore per qualche mese o qualche anno, ma quello, calmo e fermo come un grande fiume, capace di dare la vita per l’altro. Allora le mura della prigione crollano, la tomba si trasforma in una stanza nuziale, l’angoscia diventa confidenza e la liturgia che con la nostra sofferenza celebriamo sull’altare del nostro corpo di carne, lo trasforma in corpo di gloria.

MINIMA – Rubrica di Nuovo Progetto

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