Il vuoto SOMALO

Publish date 31-08-2009

by sandro


Ma che fine ha fatto la Somalia? Il recente attentato allo stadio di Mogadiscio (7 morti e 28 feriti) durante il meeting del premier somalo Ali Mohammed Gedi, ha riproposto la questione somala.

di Mohamed Aden Sheikh

L'esplosione (3 maggio '05) è avvenuta mentre il primo ministro parlava alle persone convenute allo stadio. Gedi non e' rimasto ferito. Il premier somalo, che per motivi di sicurezza vive in esilio in Kenya dalla sua elezione lo scorso anno, è arrivato per la prima volta nel Paese venerdì scorso, a Mogadiscio.
 Dopo l'istituzione ufficiale del nuovo Parlamento federale, l'elezione del Capo dello Stato e la nomina del Primo Ministro secondo la nuova Costituzione, è iniziata in Somalia la lunga sfida verso la pace, come ci racconta, per Nuovo Progetto, il dottor Mohamed Aden Sheikh, invitato alla Conferenza di Nairobi come membro della società civile.

Fa impressione l’assenza della Somalia da tutti i consessi, regionali o internazionali, per interi tre lustri. Ma dove sono i somali? Si potrebbe rispondere: nell’interno del territorio a massacrarsi o all’estero per disputarsi su chi, tra i belligeranti clan, ha ragione in termini di governo del territorio, oppure per allinearsi semplicemente ed acriticamente al “proprio” clan ancestrale.

Dopo 14 anni di lenta autodistruzione e circa 15 conferenze di “riconciliazione nazionale”, si è arrivati al dunque. I signori della guerra si sono presentati sparpagliati e guardandosi in cagnesco. Ma avevano soldi e miliziani armati sul terreno. I membri della cosiddetta “società civile”, invitati nella Conferenza di Eldoret e poi di Nairobi, costituivano solo una piccola cornice per una Conferenza il cui esito era già scontato.

La Comunità “internazionale” ha affidato l’ardua composizione del conflitto tra i somali al Continente africano, che, a sua volta l’ha scaricata, sulle fragili spalle dei Paesi confinanti (Etiopia e Kenya, soprattutto) che certo non si possono qualificare “amici” della Somalia. Confini mai determinati, popolazioni contese, guerre guerreggiate, non erano buoni presagi per sperare in un impegno serio ed imparziale dai dirigenti di quei Paesi, tra l’altro, in difficoltà anche al loro interno.

Nei 24 mesi in cui la conferenza è andata avanti, uno dei signori della guerra si avvicinava, lentamente ma inesorabilmente, alla presa di potere: il Col. Abdullahi Yususf. È partito da lontano, opponendosi fin dall’inizio alla presa del potere da parte di Siad Barre e del suo Consiglio Rivoluzionario, e alleandosi con l’Etiopia di Mingistu Haile Mariam. Ha contribuito alla caduta di quel regime e alla spartizione delle spoglie della Repubblica somala, aggiudicandosi, manu militari, la Presidenza del Puntland, regione che si è dichiarata autonoma, ma non secessionista, come il Somaliland del Nord.

Nel suo breve “regno” sul Puntland si scontrò coi capi locali, con grandi suoi precedenti elettori e con religiosi fondamentalisti. Massacrò gran parte di loro (si parla di migliaia di morti!), si tenne stretto il suo scranno regionale, malgrado siano in corso, a Londra, processi che lo vedono accusato come criminale di guerra.
Ma il suo principale obbiettivo era quello di aggiudicarsi, a qualunque prezzo, la presidenza della Repubblica, che prima o poi si sarebbe istituita. Per riuscirvi stabilì alleanze tribali, combutte con molti dei signori della guerra e con Paesi stranieri. Si presentò agli arabi come membro fedele alla Lega Araba e agli occidentali come un indomito antagonista del terrorismo islamico. Su queste basi tenne inchiodata la Conferenza per tanti mesi. E su queste basi venne favorito dai Paesi viciniori e da alcune cancellerie occidentali, anche da quella italiana (vedi Famiglia Cristiana, n° 43 del 24/10/04).
Di fronte a tale possibilità, la maggior parte dei membri della cosiddetta “Civil Society”, si mobilitò per trovare una via di uscita. Pur di contrastare l’egemonia del cartello dei signori della guerra, sposarono le “ragioni” dei capi clan, che si presentavano come autentici rappresentanti dell’insieme della Comunità somala. Era un passo di regressione politica, ma aveva un significato preciso: non si può affidare le sorti di una Nazione a quelli che l’hanno distrutta!
 Comunque, lui ha vinto, non importa ormai il come. Ma c’erano dei nodi da risolvere, ai quali nessuno ha voluto prestare, in tempo utile, sufficiente attenzione. Eletto un presidente e un Parlamento, costituito un governo, dove dovevano andare ad installarsi? È difficile pensare a Mogadiscio, dove alcuni clan e il precedente “Presidente”, alleatisi coi religiosi locali, stanno preparandosi per contrastare vigorosamente l’arrivo di un Presidente di etnia Darood. Rimangono capitali provvisorie alternative (Baidoa? Chisimayo?) oppure bisogna predisporsi per un governo in esilio, con sede a Nairobi? E poi come inserire nel “Governo” persone in grado di portare avanti un discorso di sviluppo, di ricostruzione e di riconciliazione?

A tutti questi limiti e difficoltà si aggiunge una nuova tegola: stando alle ultime informazioni, gli USA non vogliono saperne di governi guidati da signori della guerra, a cominciare dal Col. A. Yusuf. Ma come? Se finora gli USA non hanno dato alcun segnale di interesse per questo Paese, ora si svegliano, e si pongono in contraddizione coi propri alleati, come l’Etiopia, il Kenya e l’Italia stessa? Atteggiamento nuovo (o vecchio?) che ha bisogno di ulteriori elementi chiarificatori ma che, se restasse senza immediate proposte alternative, svuoterebbe di ogni sostanza gli sforzi fatti durante la Conferenza di Nairobi.

Malgrado ciò, molti somali, anche della diaspora, cominciano a sperare in un insediamento rapido di un Governo nazionale, l’inizio di una nuova fase di positive relazioni tra i “rappresentanti dei vari clan”, il superamento di vendette trasversali e il rientro nel Paese di un folto gruppo di professionisti e di operatori di consenso e di pace. C’è un vecchio adagio somalo che suona così: “gli uomini disponibili al dialogo, possono ricucire uno squarcio, persino di due spanne, nel cielo”!
Ci auguriamo che ci sia questa buona volontà di dialogo da tutte le parti.

Dr. M. Aden Sheikh
da Nuovo Progetto dicembre 2004





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