I due discepoli di Emmaus

Publish date 10-08-2012

by Mattero S.

di Mattero S. - Riflessioni sul brano di Lc 24,13 ss
È la storia di un incontro, un incontro che cambia la vita, che ti prende nella disillusione e ti porta alla speranza. È un incontro che dà la misura concreta della resurrezione di Gesù, del suo stile. Gesù comunica in un modo molto particolare. Lo ha fatto nella sua vita, ancora di più nel momento della resurrezione, in fondo il motivo per cui è venuto al mondo. Secondo logiche normali di comunicazione, oggi ci aspetteremmo chissà quali strategie, come minimo un addetto stampa, il coinvolgimento di tutti i media, tv, giornali, internet. Lui no, Gesù non ama il sensazionalismo. Non è un comunicatore di massa, ma un comunicatore personale. È discreto, perché rispetta fino in fondo la libertà dell’uomo, la libertà di credere e di non credere, di accoglierlo o di rifiutarlo. Soprattutto, è bello vedere come Gesù comunichi se stesso a persone che per i motivi più disparati si sentono o sono ai margini. Appare alle donne che non contavano niente nella società: la loro testimonianza era senza valore. Appare agli apostoli, non ancora i grandi santi capaci di dare la vita, ma persone impaurite, confuse, forse schiacciate dal rimorso per aver abbandonato un amico, nel momento peggiore. E poi appare a questi due discepoli, che sono sulla strada del ritorno, prostrati. Erano saliti a Gerusalemme con Gesù, anche loro avevano investito tutto sulle sue parole, forse avevano lasciato case, famiglia. Per cosa? Per vedere un ideale inchiodato sulla croce.

Per i discepoli di Emmaus tutto è finito, non c'è più niente da dire. O meglio, di cose da dire ce ne sono. Eccome! Il testo dice che “conversavano e discutevano”. Non stanno chiacchierando del più e del meno, non parlano per passare il tempo o per farsi compagnia. Sono arrabbiati, condividono una delusione cocente, la delusione della vita. Stanno parlando della notizia della settimana, la notizia di quel grande profeta di successo che dopo tre anni di predicazione, di segni, di miracoli arriva a Gerusalemme, non per liberare Israele come pensavano, non per realizzare progetti di potenza, ma per morire come l’ultimo dei malfattori. E attenzione, questi due discepoli sanno o almeno intuiscono che cosa è successo dopo la morte. Tra gli amici di Gesù, girano già voci sulla sua resurrezione, si parla di visioni di angeli, della testimonianza delle “nostre” donne.

Ma loro non ci credono, hanno mandato qualcuno a cercare, a verificare le fonti, ma nessuno ha visto niente. Del resto, non si può credere a delle donne. Qui entra in gioco Dio, con il suo stile di sempre: serio e ironico insieme. Gesù si avvicina, non lo riconoscono, chiede. Una situazione quasi paradossale. Gesù si informa su se stesso, sta al gioco, come se non sapesse nulla. Anche questa è una forma di rispetto, di delicatezza. È vero, userà parole di rimprovero “Stolti e tardi di cuore”, ma in fondo dà la possibilità ai discepoli di sfogarsi, di dare voce a tutto il loro disappunto, perché li capisce, si mette nei loro panni. “Cosa avete? Perché discutete? Parliamone”: non giudica, ma cammina con loro. Dio si avvicina totalmente alla debolezza, all’umanità così com’è. Spiega, dà spunti ed elementi, non in modo traumatico o ultimativo, ma lungo la via. Avrebbe potuto dire subito chi era. Invece no. Per scaldare il cuore e scaldarsi a volte serve gradualità. Altrimenti ci si brucia.

Nel dialogo tra Gesù e i discepoli c’è poi un’espressione chiave. È quel “noi speravamo”. Ognuno ci si può mettere dentro. Qui si parla di speranza, ma di una speranza coniugata al passato. Non è la speranza bella che fa spostare le montagne, ma una speranza che sa di disincanto, di mai più, di un sogno bello finito, così come era iniziato. La speranza “al passato” è terribile, perché alla lunga ti incattivisce, ti chiude il cuore, gli occhi, ti fa avvitare intorno al tuo piccolo o grande problema. È un'esperienza molto comune: siamo tutti sulla stessa barca. Possiamo credere o non credere, essere forti o deboli, simpatici o no, emotivi o razionali, ma prima o poi ci passiamo tutti, anche se sappiamo come sono andate le cose, anche se crediamo.

La verità è che spesso la consapevolezza è molto più grande della capacità di agire e anche di sentire. Tu puoi avere consapevolezza delle verità profonde ed essere bloccato. L'umore può sovrastare l'amore. Posso avere fede, ma rimanere impantanato in quel noi speravamo. A chi non è mai capitato di dire: io credo, ma speravo di poter cambiare carattere, di non sbagliare, di non fare i conti sempre con gli stessi limiti, le stesse fragilità. Io speravo di avere chiaro ogni aspetto della mia storia, di smettere di giudicare, di essere capace di perdonare. Speravo di non perdere il lavoro, di non fallire nel privato, nella mia famiglia, di non vivere la malattia o una prova, di essere forte nella debolezza, nella fatica. Di essere vincente nella lotta contro l’ingiustizia. Io ci speravo, invece...

La risposta a queste attese arriva solo quando i discepoli riconoscono Gesù. Quello spezzare il pane richiama l'eucaristia, la presenza di Dio nella storia, ma c'è anche un'altra sfumatura. Tutto cambia, quando Gesù “entrò per rimanere con loro”. Il Vangelo non dice dove, forse in casa, di sicuro entra e rimane in una sfera molto intima. Del resto, a tavola, non si invitano sconosciuti, ma persone con cui si vuole entrare in relazione. Se è così, Gesù entra lì dove abita il mio cuore, la mia persona, la mia intimità. Diventa riconoscibile proprio per questo. Verrebbe da dire che è quello che conta, perché subito dopo sparisce dalla vista. Ma è quanto basta per far aprire gli occhi, per dare senso ad ogni cosa. È un'esperienza così piena e grande che i discepoli si rimettono in cammino, tornano indietro, lì da dove erano scappati, nel cuore della notte. Non c’è paura, non c’è indugio: partono e fanno ripartire la speranza. Ora sì una speranza vera, la speranza chi ha il coraggio di tornare sui propri passi, la speranza di chi ha capito. La speranza che nasce nel momento in cui ci rendiamo conto e percepiamo che Gesù non è estraneo alla nostra persona. Lui entra dentro, c’è. Ora, lì dove siamo, dove viviamo, nelle gioie come nei limiti, nella pienezza come negli affetti feriti, nelle parti di sé che uno non accetta, nelle domande, nel dubbio.

La speranza del risorto apparentemente non cambia le cose, nel senso che se io vivo una situazione a volte non posso cambiarla, posso accoglierla. Se ho un problema, posso renderlo un'opportunità. In certe circostanze, non posso fare, posso semplicemente stare. Come fa Gesù del resto. La speranza non cambia le cose subito, ma lentamente indica una strada da percorrere e scalda il cuore. Gli occhi si aprono e tutto quello che i discepoli già sapevano con la testa diventa esperienza di vita. Con un'apertura immediata agli altri: Gesù non si svela a singoli chiusi nel loro egoismo, in questo caso i discepoli sono due, c’è già una comunità in cui condividere, crescere e camminare. E poi la dimensione del servizio, dello spezzarsi per gli altri come quel pane, il morire per amore. Un sigillo, come ha detto mons. Luciano Monari all’Università del Dialogo, perché chi muore per amore non può più tornare indietro. Nessun male può annullare il “fino alla fine”.

Concludendo, come comunica Gesù, come si fa conoscere? Con un desiderio, quello di rimanere con noi. In che modo? Prima di tutto facendoci sfogare, poi spiegandoci il senso delle cose non da un momento all'altro, ma lungo la via, quindi mentre viviamo, andando al cuore, all'essenza vera del nostro essere, della nostra umanità. Poi, aprendoci gli occhi. È il momento della consapevolezza, che è per tutti. Ognuno nella vita ha avuto o avrà il suo appuntamento. Bisogna crederci! E così, come nessuno si è mai ubriacato leggendo l'etichetta del vino, nessuno può conoscere Gesù senza passare da un'esperienza concreta. Perché non si può credere per sentito dire. Così come non si può amare. Quei discepoli lo hanno sperimentato, se vogliamo possiamo fare altrettanto anche noi. Continuamente.

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