Esisto? Statemi a sentire!

Publish date 10-08-2012

by sandro

di Sandro Calvani - I popoli dimenticati delle Isole Andamane. Il sogno di Mohd. “Se mi paghi un piatto di riso ti racconto la mia storia”. È cominciata così la mia chiacchierata con Mohd Zakhir (abbiamo modificato il nome e il cognome per la sicurezza dell’interessato. ndr).

Mohd, 21 anni, era seduto sul marciapiede fuori dall’Ambasciata della Malesia a Bangkok con un cartello su cui era scritto in un inglese un po’ approssimativo pleas lissen to me (per favore statemi a sentire). Mohd aveva con sé una carta d’identità di Chittagong (Bangladesh) in pessimo stato, scritta in caratteri bengali, tenuta insieme con più nastro adesivo che carta originale. Alla prima ovvia domanda: “Di dove sei?” mi ha risposto: “Solo Dio lo sa. Io sono un Rohingya”. Mohd è scappato da un campo improvvisato nel Sud della Thailandia dove vengono ospitati gli immigrati clandestini che arrivano dalle Isole Andamane in barche e barconi. A volte la Marina Militare Thai è costretta ad intervenire in alto mare, in acque internazionali a causa di un naufragio delle barche dei migranti. Altre volte sono i migranti stessi che entrano in acque territoriali Thai o cercano l’approdo verso Phukhet, perché sono rimasti senza cibo, senz’acqua o senza benzina. La Thailandia non riconosce alcuno status speciale ai Rohingyas e li respinge, obbligandoli a tornare in Myanmar o in Bangladesh. Ma non è la prima volta che Mohd scappa da un campo di internamento. Lo aveva già fatto dopo essere stato pescato dalle autorità indiane ed internato per mesi in un campo chiamato Brookshabad, vicino a Port Blair, la principale base navale della Marina Militare e della Guardia Costiera indiane nelle Isole Andamane. La vita di tutti coloro che appartengono alle minoranze etniche delle Isole Andamane è comunque un inferno, sia in Bangladesh che in India che, peggio che mai, in Myanmar, tutti Paesi che non riconoscono tali minoranze come propri cittadini e quindi li discriminano nel loro diritto al lavoro, all’educazione e alla casa, fino a provocarne la fuga.



La grande maggioranza dei giovani sognano – e spesso ci riescono – di scappare verso le moderne e benestanti città della Malesia o dei Paesi del Golfo, che sono come un miraggio per loro, anche se spesso saranno poi ugualmente maltrattati e sfruttati e non riusciranno ad ottenere la cittadinanza. Molti scappano ripetutamente diventando dei boat people, gente in barca, per tutta la vita.
Mohd vuole che qualcuno lo stia a sentire perché un funzionario dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) a Port Blair gli ha detto che esistono nel mondo dei diritti umani, che appartengono a ciascun essere umano per il solo fatto di esistere e non perché uno ha dei soldi o sa leggere e scrivere o è cittadino di un Paese o perché è cristiano o musulmano. Mohd si chiede però se quel che gli ha detto quel funzionario è poi vero o no. Ma prima mi chiede se so chi sono i Rohingyas Arakanese. Devo ammettere che so solo che esistono e che sono molto poveri.

Aggiungo che credo che la maggior parte del resto del mondo non sappia chi sono i popoli delle Andamane, i Rohingyas Arakanese, che sono i più numerosi, e gli altri gruppi più piccoli come gli Onges, i Jarawas, o i Sentinelese; ma anche se si sapesse di più di loro, ciò non genererebbe un gran che di interesse per la loro causa. Di loro non parla quasi nessuno perché sono poverissimi, non hanno dimora fissa, non contano niente perché non hanno nulla da vendere, non possono comprare nulla, non hanno risorse naturali e nemmeno un territorio, non hanno nazionalità riconosciuta, né scuole, né banche, né avvocati e un giornalista farebbe davvero fatica a trovarli e ad intervistarli. Non sono nemmeno bravi a rubare, quindi non fanno notizia. Ma sono felice di confermare a Mohd che quanto ha sentito dire è vero: “Tutte le persone umane hanno gli stessi diritti” compresi i milioni di persone appartenenti a piccole etnie, anche se i loro popoli non sono riconosciuti da alcuna Nazione.

I piccoli gruppi etnici che abitano le Isole Andamane vivono in continua migrazione da un’isola all’altra, da un costa all’altra intorno all’arcipelago nell’Oceano Indiano tra le coste orientali dell’India, il Bangladesh, il Myanmar e la Thailandia. Per sapere qualcosa di loro bisogna fare una ricerca storica o sui motori di ricerca in internet. Qualche notizia comincia ad emergere grazie al lavoro delle organizzazioni non governative che si occupano dei diritti delle minoranze, anche se i popoli delle Andamane non appaiono nemmeno nella lista UNPO (organizzazione delle nazioni e popoli non rappresentati presso le Nazioni Unite). Sono etnicamente dei negritos e si dedicano principalmente alla caccia, alla pesca e ad un po’ di agricoltura non industrializzata, soprattutto tra quelli di loro che non sono nomadi.

Il gruppo di lavoro dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, che esegue una revisione periodica della situazione delle minoranze, ha chiesto più volte alle Nazioni con coste sull’Oceano Indiano di smettere le loro politiche di respingimento in mare, che sono illegali secondo il Diritto Internazionale del Mare e secondo le convenzioni sui rifugiati e sugli apolidi, di organizzare meglio i servizi di accoglienza ai migranti dalle Isole Andamane, di trovare una sistemazione definitiva per i gruppi di Rohingyas che sono internati nei campi per troppo tempo. Una piccola agenzia di stampa online (kaladanpress.org) ha cominciato a pubblicare su internet le aspirazioni dei Rohingyas, le loro lotte quotidiane per riuscire ad essere riconosciuti come persone aventi diritti anche se non hanno un passaporto. Intanto però centinaia di giovani come Mohd continuano a subire tutti gli abusi e le angherie comuni ad altre minoranze etniche, religiose e linguistiche in altre parti dell’Asia e soprattutto nel Myanmar, dove le 136 minoranze non birmane sono così numerose da raggiungere oltre un terzo della popolazione totale del Paese. Molti Rohingyas vivono nello stato del Nord Arakan della Birmania. Sono stati resi apolidi dalla legge del 1982 sulla cittadinanza della Birmania. Per trent’anni i loro diritti umani e le libertà fondamentali sono state sistematicamente ridotte attraverso una serie di politiche draconiane per il lavoro, la creazione di imprese, l’educazione, la salute, tasse arbitrarie e controlli vessatori.

Tutto il resto della storia recente di Mohd è un continuo peregrinare per oltre quattro anni tra Chittagong in Bangladesh, Penang in Malesia, alcuni villaggi di pescatori in Indonesia, le isole del Sud della Thailandia. Un terzo del tempo passato in campi di internamento o di lavori forzati, per il resto una vita in mare, senza scuole, né controlli di salute, sempre senza soldi. Mi dice che è stato pagato per due mesi di lavoro da pescatore e conduttore di canoe per i turisti nell’isola di Koh Phi Phi. Ha con sé 6000 Baht (150 Euro) e spera che bastino per ottenere un visto per la Malesia anche se non ha passaporto. Il suo sogno è costruirsi un piccolo laboratorio di carpenteria sulla spiaggia in Malesia per riparare barche e canoe. Mi ha chiesto il mio numero di telefono per chiamarmi, magari tra qualche anno, e dirmi che il suo sogno è divenuto realtà.

Persone, fatti e numeri per Orientarsi – Rubrica di Nuovo Progetto


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