Crisi di responsabilità 2/2

Publish date 10-08-2011

by Mauro Palombo

Il mercato da solo non può fornire risposte. Cresce il numero dei disoccupati e la povertà. Occorre prendere coscienza che niente tornerà come prima e impegnarsi a fondo per venirne fuori in una logica da “comunità di persone”.
di Mauro Palombo
 
Seconda parte
 
Il mercato
Il libero mercato oggi tende ad essere libero soprattutto per gli operatori. In molti settori ha perso i connotati di un mercato di concorrenza perfetta o imperfetta, ma si configura stabilmente piuttosto come un oligopolio: molti piccoli attori dal lato domanda, pochi grandi dal lato offerta. La concorrenza che in altri settori ancora si svolge tra le aziende rimaste - pensiamo a quello dell’auto -, è lotta per la sopravvivenza all’insegna di una sempre minore tollerabilità di ogni livello di inefficienza proprio perché errori in questo senso rischiano di collocare rapidamente e irreversibilmente fuori mercato anche operatori di grandi dimensioni e lunga storia.
 
Al di là di tutto, è fondamentale partire dal fatto – quanto mai reale – che ci troviamo in uno scenario nuovo, non paragonabile a quanto di cui finora abbiamo fatto esperienza. Non appare affatto pensabile che il mercato da solo, anche entro un tempo, possa fornire una risposta a quanti si trovano e si troveranno estromessi dal sistema. Diseconomie, tensioni, possono essere controllate, ma nel quadro di un abbassamento della qualità della vita personale e sociale. Siamo spinti all’individualismo esasperato. La novità di una disponibilità maggiore di prodotti di minore qualità ma anche di più basso costo, ha per un tempo mascherato la diminuzione in valore assoluto del potere d’acquisto delle persone, specie quelle di minor reddito.
 
Certamente, le persone devono mettersi in gioco più e meglio di quanto una situazione forse irripetibile di qualche decennio fa può aver in qualche modo consentito. Le opportunità sono, in aggregato, inferiori e più ardue da cogliere. Occorre uno spirito nuovo, o forse ritrovare quello antico. Ma altrettanto si deve aver coscienza della necessità di risposte che la società deve ricevere da chi viene scelto per assumersi di questo la responsabilità. Per mantenere un’identità nel suo insieme, in cui riconoscersi. E insieme trovare strade per tutti.
 
Quale ripresa?
La conseguenza più grave degli ultimi dodici mesi è il crollo dell’occupazione. A fine settembre i disoccupati erano stimati in 22 milioni nella sola Unione Europea. Negli Stati Uniti il periodo della crisi ha fatto crescere di 7 milioni il numero dei disoccupati. Anche i Paesi a basso reddito, che producono per i mercati ricchi, subiscono pesanti contraccolpi su milioni di loro addetti. Le cifre sono disastrose; e sovente approssimate per difetto. Per ciascuna delle persone coinvolte, occorre cercare di immaginare il colpo allo stomaco, il senso di smarrimento e di angoscia. La rabbia, ma anche la perdita di fiducia in sé stessi e lo stress di fronte all’impossibilità di organizzare un futuro. Secondo l’ISTAT, nel nostro Paese i poveri superano gli 8 milioni.
 
Il rischio maggiore è che la ripresa, anche materializzandosi di più in termini di fatturati e PIL, potrebbe probabilmente non portare ad una diminuzione della disoccupazione. Cause concomitanti: la chiusura delle attività produttive che non riusciranno comunque a riprendersi, e le pesanti riduzioni di personale che soprattutto i grandi gruppi ovunque hanno effettuato o hanno in programma di effettuare. In questo senso, la crisi ha offerto delle opportunità: i non pochi gruppi che già avevano problemi di sovradimensionamento e/o di inefficienze – a causa tanto della competizione globale quanto anche di propri errori strategici - hanno potuto portare avanti programmi di riduzione del personale con una sorta di legittimazione da parte della situazione generale, e aiuto da parte dei governi. Esauriti anche i prepensionamenti, non sono neppure poche le aziende che pure in buon stato di salute attuale e in prospettiva, “fanno efficienza” da tempo, con tagli di personale più o meno espliciti, ma ben robusti e non bilanciati da nuove assunzioni.
 
Il recupero di una condizione di competitività non può essere basato unicamente sulla diminuzione degli occupati, e sulla flessibilità - alias precarizzazione - di quanto più possibile dei rapporti di lavoro rimasti. E’ una di quelle scelte che, perfettamente razionali per il singolo che le compie – impresa, in questo caso -, sono portatrici di conseguenze devastanti per le società sulle quali si ripercuotono. La sottoccupazione, la disoccupazione, la precarietà esasperata sono a un tempo effetto e a un tempo fattore determinante del sottosviluppo. Al di là di quanto nel mondo si può riscontrare, nel nostro stesso Paese la situazione del sud ne fornisce già un ottimo esempio.
 
Un tempo di responsabilità
In questo contesto, è sempre più vitale che il settore pubblico offra a tutti quel fondamentale contributo di servizi essenziali di buona qualità – scuola, sanità, sicurezza, pubblica amministrazione… -, che rappresentano la garanzia della qualità del vivere sociale, al di là della disponibilità di reddito dei singoli. Le persone, dal canto loro, sono ben consapevoli della tendenza che anno dopo anno cambia le regole del gioco e del fatto che nulla tornerà come dieci o venti anni fa. La responsabilità qui è nella disponibilità rinnovata ad una cultura del lavoro impegnato e creativo, già patrimonio di molti.
 
Nel settore privato, da anni si parla molto di responsabilità sociale dell’impresa: la capacità dell’impresa, nel nome di un bene comune della società, di assumersi impegni anche oltre il dettato legislativo e normativo, in temi diversi. Non è una novità, ma una prassi sposata negli scorsi decenni da aziende grandi e piccole, dove il padrone e fondatore non licenziava quando la congiuntura era negativa, ma resisteva, per decenni a volte, col contributo di una forte compagine solidale. È questo il momento di dar concretezza a quanto in molte aziende si proclama. Ben al di là di incentivi o altro, è dalla volontà dell’impresa che le scelte dipendono. Sia quando si tratta di realmente adeguarsi ad un dettato normativo, che quando si tratta di agire nel proprio ambito di libertà, in cui diverse strade possono magari essere percorse, con una compatibilità in termini economici.
 
La responsabilità sociale, per non essere effimera, va innanzitutto misurata proprio in termini di quantità e qualità di lavoro offerto. Ed entro un limite, settore per settore, l’impresa può scegliere di privilegiare il mantenimento di livelli di qualità e quantità anche superiori a quanto la semplice logica del taglio può indurre. In una vincente alternativa alla miopia del risultato immediato, ma in una logica di più lungo periodo. Dove l’azienda si connota più coerentemente con l’immagine che la dottrina sociale cristiana ne dà, quella di comunità di persone. Di un tutto che assume, per questo, un valore e una potenzialità tanto maggiore quanto tutti coloro che la compongono sono valorizzati e riescono a sentirsene per questo parte a tutti gli effetti.
 
Mauro Palombo
 
 
 
 
 

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