Brexit, segnali di crisi

Publish date 15-03-2016

by Lucia Sali

di Lucia Sali - Un conto alla rovescia di poco meno di quattro mesi e che, al di là di quello che sarà il risultato, sin d’ora cauziona il futuro del progetto europeo. La minaccia di una Brexit che porta con sé il referendum convocato per il 23 giugno dal premier britannico David Cameron, con cui i cittadini del Regno Unito saranno chiamati a decidere se restare o uscire dall’Unione europea, è già di per sé il primo segnale legale di una potenziale strada di non-ritorno verso la disgregazione europea. Si tratta infatti del primo caso, dalla nascita dell’Ue, in cui uno dei suoi Stati membri ha chiesto di poter decidere non tanto di restare, quanto di uscire dal progetto europeo.

E che ha posto come paradossali condizioni di restare quella di non essere più vincolata a fare parte di un’Ue sempre più stretta e integrata. Ovvero di non essere tenuta a seguire lo stesso progetto europeo. Non solo. Per la prima volta, uno Stato membro ottiene anche la deroga al rispetto dell’uguaglianza tra tutti i cittadini dei 28 Paesi Ue, con l’introduzione di fatto di una discriminazione dei diritti sociali dei lavoratori puramente in base alla nazionalità. Gli inglesi avranno più diritti di un italiano, che lavora a Londra con regolare contratto locale e in base a cui paga le tasse come tutti gli altri suoi colleghi, che invece diventeranno dei privilegiati solo per il fatto di avere il passaporto di Sua Maestà. Sono questi i due punti chiave dei negoziati condotti da Londra con Bruxelles negli ultimi sei mesi e poi in un rush finale di 40 ore no-stop al vertice Ue del 18-19 febbraio. Quello che in gergo Ue è stato chiamato freno d’emergenza, certo non avrà durata indefinita ma potrà essere invocato da Londra per un massimo di 7 anni: anche se limitato nel tempo costituisce comunque una messa in discussione di uno dei valori fondanti dell’Ue, la libera circolazione. A esserne più colpiti sono, in termini numerici, i Paesi dell’Est, in particolare i polacchi.

Cameron l’ha definito un “buon accordo” che gli consente ora di fare campagna elettorale per il sì al referendum che lui stesso ha promesso ai suoi elettori in un azzardo politico pur di riuscire a vincere le elezioni sottraendo voti ai partiti ancora più euroscettici, in particolare l’Ukip di Nigel Farage. Uno dei cavalli di battaglia dei partiti anti-Ue è infatti l’accusa di turismo del welfare contro cittadini di altri Paesi Ue che andrebbero in Gran Bretagna non per lavorare ma solo per sfruttare i benefici di uno stato sociale più generoso di quello d’origine. L’ultima parola spetta ora ai cittadini britannici: il voto del 23 giugno sarà sì o no all’Ue, al di là del contenuto del compromesso raggiunto all’ultimo vertice dei 28. I sondaggi danno un preoccupante testa a testa con oltre il 25% di indecisi. Con il sindaco di Londra che, insieme ad altri pezzi da novanta del partito di Cameron, hanno annunciato che faranno campagna per il no. La Commissione Ue ha deciso di non intervenire per evitare effetti boomerang come quello del referendum greco sul piano di salvataggio, dove prevalsero i no.

La City spinge per il sì e anche le grandi società, incluse le compagnie aeree low cost Ryanair e Easyjet, mentre la Bank of England sta già preparando un piano di emergenza in caso di uscita dall’Ue. Una “Brexit potrebbe, ha avvertito infatti il G20 finanziario a Shangai, provocare uno shock” all’economia mondiale.

Eurolandia - Rubrica di Nuovo Progetto

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