Attraverso il sudore

Publish date 14-08-2012

by Vincenzo Andraous

di Vincenzo Andraous - La memoria e il dialogo sono tra i pochi mezzi efficaci per resistere alla quotidiana e progressiva corrosione di sé.

Perché il carcere dovrebbe parlare il linguaggio dello sport? Perché questi due mondi apparentemente distanti dovrebbero accorciare le distanze per consentire a chi sta male di stare un po’ meglio? Ricordando di avere fatto parte di un gruppo teatrale carcerario, mi viene in mente il testo teatrale Il Maratoneta, un’autoscrittura che prendeva il via dall’opera originale di Alan Sillitoe (foto): La solitudine del maratoneta. Un testo aspro, una ricognizione autentica del proprio vissuto, una maratona interpretata fino alla fine con il cuore in gola, tutta dentro una scelta dura come pietra, un faccia a faccia attraverso il riesame intero del proprio passato, un mutamento interiore senza somme da detrarre, una nuova condotta sociale priva di una comoda ultima fila dove nascondersi. La corsa, la maratona, le gambe, le braccia, i muscoli tesi al parossismo, la fatica, il dolore, il sudore, la voglia di mollare, di dare una fine alla sofferenza.

E poi ancora l’espulsione delle tossine, il benessere di una scelta di libertà, il desiderio di arrivare, di farcela, di non rimanere nuovamente a terra, di soccombere alla didascalia della prigione, dove non esistono uomini vincenti, ma soltanto uomini sconfitti. A volte lo sport entra in carcere esclusivamente per intrattenere e divertire, avendo come unico obiettivo il gioco. Eppure il detenuto corre e suda da quel dentro che è il frutto di un fuori, che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto.
La forza e la magia dello sport in carcere si manifesta nel carico di energie che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, forzatamente compresso e coartato. È possibile servire reciprocamente allo sport, in quanto portatori di un’umanità modificata dalla restrizione, che ricerca ed esalta le differenze, esprimendo, attraverso il lavoro della fatica, una potenza anche maggiore. Quella incredibile espulsione delle tossine offre un doppio sostegno a chi è in una cella a scontare la propria pena, permette il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e spinge alla cooperazione, alla solidarietà, allo scambio con gli altri. Il sacrificio, il sudore della solidarietà, migliorano gli uomini e la dimensione in cui vivono, operando con modalità collettive anziché individualizzatrici, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico, anziché di coazione a ripetere.
Fare sport in carcere non vuol dire creare false illusioni
, l’uso di fantasticherie e sogni per evadere in altri spazi e in altri tempi o in altri corpi, ma sport per crescere, un gioco liberamente vissuto con la mente e con il corpo, un nuovo linguaggio socialmente accettato, adeguato, reso produttivo e creativo. Per stabilire dei legami che ti fanno sentire finalmente accettato, per entrare in contatto con gli altri edificando relazioni importanti, per smetterla di rimanere muti, obbligando gli altri a non parlare.

UNA RUBRICA OLTRE LE SBARRE – Rubrica di Nuovo Progetto

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