La narrazione di storie

Publish date 21-12-2020

by Arsenale della Piazza

La narrazione di storie come strumento per potenziare
le capacità immaginative ed espressive dei bambini

Dalla dissertazione finale di Camilla Pampaloni. Corso di laurea in educazione professionale.
Università degli Studi di Torino. Relatrice Lucia Portis.

“Le fiabe servono proprio perché,
in apparenza, non servono a niente: 
come la poesia e la musica,
come il teatro e lo sport.
Servono all’uomo completo.
Se una società basata
sul mito della produttività
ha bisogno di uomini a metà
vuol dire che è fatta male
e che bisogna cambiarla.
Per cambiarla,
occorrono uomini creativi,
che sappiano usare
la loro immaginazione”.


(Rodari, 1973, p. 178)

Il progetto raccontato in questa tesi è nato più di 3 anni fa, durante il mio percorso di Servizio Civile presso l’Arsenale della Piazza del Sermig di Torino. Si tratta del risultato di una riflessione nata a partire da alcune delle prime cose che mi sono state insegnate sul fare educativo, con i minori ma non solo.

Per proporre un’attività nuova a qualcuno, è necessario che per primo piaccia a chi la propone, affinché sia in grado, in maniera il più possibile sincera, di trasmettere entusiasmo e senso a ciò che si sta facendo. Mi è stato anche insegnato come la reattività, il saper trovare velocemente soluzioni creative a problemi e imprevisti, sia un requisito importante in qualunque contesto lavorativo. Infine, osservando altri contesti educativi e percorsi laboratoriali, ho imparato che ciò che si propone deve essere costruito a misura di chi partecipa, il fine ultimo deve essere sempre orientato sui destinatari e il senso di ciò che si fa deve essere chiaro e coerente per tutti dall’inizio alla fine.

A partire da queste informazioni, mi sono chiesta che cosa avessi io da “dare” ai piccoli utenti del servizio in cui mi trovavo e per darmi una risposta sono andata a scavare nei miei ricordi, cercando di ricordare come fossi o cosa mi piacesse alla loro età. È stato semplice: a 10 anni divoravo un libro dietro l’altro e sognavo di diventare una scrittrice, ma come trasformare questa passione in una proposta accattivante? È nato così un percorso di 8-10 incontri per allenarsi a inventare storie, a partire da input diversi e utilizzando tecniche espressive sempre nuove.

La prima versione del laboratorio è stata proposta ad un gruppo di bambini di cui la maggior parte con disturbi specifici dell’apprendimento o bisogni educativi speciali, il che ha influito in maniera sostanziale sulla costruzione del progetto: desideravo che fosse un percorso accessibile e piacevole anche per chi non avesse particolare dimestichezza o serenità nella letto-scrittura, quindi ho pensato di esplorare più strumenti narrativi per fare leva su altre capacità (orali, teatrali, creative) e far sentire i bambini tutti uguali, cosa che magari nel contesto scolastico è più complessa per svariati motivi.

Il progetto proposto quest’estate è leggermente diverso dal precedente: a fronte di altri 3 anni di studio e dei feedback dell’esperienza precedente, ho ritenuto opportuno fare alcune modifiche sia nell’impostazione dell’intero percorso che in alcune attività più specifiche.

La più grande modifica ha riguardato la valutazione dei bambini durante il percorso. Nel 2017, durante il primo incontro avevamo stabilito, io e i bambini, delle regole su come stare nel laboratorio: discutendone insieme, avevamo scelto tre regole “positive” (possiamo ascoltarci a vicenda, fare tantissimi sorrisoni, aiutarci tra di noi) e tre “divieti” (non possiamo fare i brontoloni, urlare come dei babbuini, dire “non sono capace”). Inoltre al termine di ogni incontro, dopo che i bambini erano usciti dall’aula, attribuivo da 0 a 2 stelle ad ognuno in base a come si era comportato durante il laboratorio e c’era un cartellone appeso al muro della stanza con punteggi e legenda, in modo che fosse tutto trasparente. Il solo fatto di essere presenti faceva guadagnare un punto a tutti e ogni tanto veniva attribuita una stella in più per meriti speciali. Il sistema delle stelle svolgeva varie funzioni: stimolare i bambini nell’impegnarsi, valorizzare coloro che magari a scuola non si sentivano spesso premiati e che invece in questo contesto potevano splendere, aiutarmi a mantenere un minimo di controllo sul comportamento del gruppo. Nonostante questo punteggio potesse essere letto come una sorta di valutazione, non è mai stato commentato o presentato come tale: al termine del percorso ognuno ha ricevuto un diploma con le stelle guadagnate e un ringraziamento per la sua presenza, senza alcun riferimento o commento sulle sue effettive performance o sul suo atteggiamento.

Nel 2020 ho deciso di abolire questo sistema e di spostare l’attenzione sulla consapevolezza di sé e sull’autovalutazione. Nonostante nel 2017 avessi avuto delle attenzioni particolari su questo aspetto, volevo che stavolta il percorso fosse totalmente esente da qualunque giudizio da parte mia, lasciando più spazio possibile alla percezione dei singoli. Per questo motivo, ho fatto sì che fossero loro stessi a darsi una valutazione sull’impegno profuso, cercando di rendere l’operazione il più possibile adatta a età e contesto e aprendo poi un confronto a posteriori per farli riflettere e rielaborare l’esperienza.

Ho invece mantenuto invariato il sistema di valutazione delle singole attività perché ho ritenuto fosse un sistema adeguato ed efficace per avere un’opinione abbastanza spontanea e libera dai bambini senza appesantirli o fare richieste troppo impegnative.

Un’altra differenza che ho introdotto e alla quale tenevo molto è la lettura ad alta voce come rito iniziale. La dimensione rituale affonda le radici nelle tradizioni più antiche e tribali della storia dell’uomo, come momento di condivisione, di passaggio, di costruzione di significati e relazioni (Fabietti, 2010). Nei contesti laboratoriali ha lo scopo di sancire un prima e un dopo rispetto alle attività proposte, come una sorta di portone per entrare e uscire dallo spazio-laboratorio. Durante l’infanzia e in varie esperienze lavorative, ho avuto modo di sperimentare come la lettura ad alta voce possa catturare l’attenzione dei bambini e tranquillizzarli, creando un canale di contatto tra lettore e ascoltatore che spesso non si esaurisce al termine del racconto ma crea una complicità che può risultare molto utile e costruttiva anche in tempi successivi. Nel 2017 mi ero riproposta di utilizzare questo strumento per lavorare con i bambini ma per una questione di tempi non sono mai riuscita; nel 2020 ho organizzato meglio la scansione dei tempi per le singole attività e in questo modo ho trovato lo spazio per aprire con metodo ogni incontro.

I temi degli incontri sono rimasti pressoché gli stessi, mentre alcune attività sono cambiate, più o meno radicalmente in base a com’erano state “recensite” nel 2017, alle risorse, dinamiche ed esigenze dei gruppi e anche a nuove idee nate in corso d’opera. Il risultato è un repertorio abbastanza nutrito di attività, dal quale in futuro si potrebbe attingere per costruire percorsi sempre più ad hoc in base ai destinatari.

Al termine del percorso del 2017, nel trarre le conclusioni sull’andamento del progetto, erano emerse le seguenti suggestioni: dare spazio alla lettura ad alta voce, semplificare gli input, valorizzare di più le capacità espressive di ognuno, insistere sulla collaborazione. A partire da queste indicazioni, ho ricalibrato alcune proposte o le ho completamente riformulate, cercando di migliorare gli aspetti che mi erano parsi più deboli.

Il primo percorso era strutturato su 10 incontri così suddivisi: 1. Introduzione, 2. La mia storia, 3. Il protagonista, 4. Gli altri personaggi, 5. Dove e quando, 6. Avventuriamoci, 7. Com’è fatta una storia, 8. Ad ognuno la sua storia, 9. Il libro delle nostre storie 10. Il diploma delle stelle. Nel secondo percorso, cioè quello raccontato e realizzato per questa tesi, avevo a disposizione solo 8 settimane quindi ho scelto di fondere gli incontri 1-2 e 9-10. Col senno di poi e alla luce delle esperienze, credo che una decina di appuntamenti, sempre da 60 minuti e con cadenza settimanale, sia il formato più adeguato a perseguire gli obiettivi prefissati senza appesantire le attività, rendere più frenetico il lavoro e soprattutto ridurre le occasioni per i bambini di sperimentarsi e i temi da esplorare.

A proposito della possibilità di sperimentarsi vorrei aprire una parentesi, che in realtà costituisce il perno centrale dell’intero progetto e che a mio avviso spiega perché questo progetto sia coerente non solo con chi sono e col mio percorso di studi, ma anche e soprattutto con il lavoro dell’educatore.

Educare significa accompagnare l’altro nel percorso di costruzione di consapevolezza, autonomia, di strumenti per affrontare l’esistenza e di valorizzazione delle proprie risorse (Oliva, 2015)[1]. Credo si evincerà facilmente dalla lettura di questo documento che l’obiettivo del mio laboratorio fosse esattamente questo: far sì che i destinatari del progetto si sentissero al centro di qualcosa costruito per loro, di uno spazio in cui farsi guidare nell’esprimersi liberamente e senza timore di sbagliare, di non essere abbastanza bravi, belli o preparati. La fantasia è un posto bello in cui crescere, non per dimenticarsi della realtà ma per saperla guardare con occhi nuovi, curiosi e affamati.

 

CAPITOLO 1. RIFERIMENTI TEORICI

La narrazione

“L’imperativo umano a produrre e consumare storie
è qualcosa di ancora più profondo della letteratura, dei sogni e delle fantasie.
Siamo inzuppati di storie fino alle ossa.”

(Gottschall, 2012, p. 36)

Secondo Miller (2013), con comunicazione si intende “il processo di trasmissione e ricezione di messaggi dotati di significato”, mentre il linguaggio è “un insieme sistematico di segni e simboli dotati di significati appresi e condivisi” (p. 178). Il linguaggio animale rispetto a quello umano è basato esclusivamente su un sistema di richiami, uno scambio orale di suoni dotati di senso in risposta a fattori ambientali. Il linguaggio umano ha invece alcune caratteristiche specifiche che non lo rendono riducibile ad un mero scambio di informazioni per la sopravvivenza. In primo luogo il linguaggio umano non è solo orale: può essere verbale, corporeo, figurativo, ecc. In secondo luogo esso è produttivo, nel senso che, a differenza degli animali, l’uomo può produrre un infinito numero di informazioni da scambiare. Infine il linguaggio umano è in grado di trascendere il tempo e lo spazio: la proprietà del “distanziamento” consiste nella possibilità di parlare di avvenimenti appartenenti a epoche o luoghi diversi e di tramandare nel futuro tali narrazioni. I codici narrativi, cioè il modo di comunicare, di raccontarsi dell’uomo, possono essere vari: scrittura, oralità, rappresentazione grafica, musica, danza e altro (Miller, 2013).

Raccontare non deve per forza avere uno scopo né chiedere indietro qualcosa, ecco cosa distingue la comunicazione umana da quella animale. Può essere uno scambio ma anche un dono, soprattutto quando viene fatto da un adulto ad un bambino: regalare una storia è un gesto d’amore, di cura, di attenzione. Noi uomini siamo talmente immersi e intersecati in narrazioni che non ce ne rendiamo nemmeno conto, come un pesce che non sa cosa sia l’acqua. In questo momento, mentre batto sulla tastiera, io sto raccontando e chi mi legge è in procinto di ricevere una storia, la storia del mio progetto.

Secondo Biagini (1985), con narrazione possiamo intendere “qualsiasi attuazione verbale mediata, finalizzata a comunicare ad altri eventi e fatti” (p. 11). Partendo da questo presupposto e analizzando a letteratura a disposizione, emerge quanto sia complesso dare una definizione univoca di narrazione, che tenga conto di tutte le forme che essa può assumere e ha assunto nel tempo. Può venirci in soccorso Genette (1976, citato in Biagini, 1985), che propone di “chiamare storia il significato o contenuto narrativo … il racconto propriamente detto il significante, enunciato, discorso o testo narrativo, e narrazione l’atto narrativo produttore e, per estensione, l’insieme della situazione reale o fittizia in cui esso si colloca” (p.11).

Sono state successivamente formulate altre ipotesi, che tengono conto degli aspetti formali e semantici, degli elementi strutturali alla base di una narrazione e dello scopo per il quale essa esiste. Sono stati identificati alcuni elementi fondamentali affinché sussista una narrazione: il parlante, l’ascoltatore e l’intenzione. Se ci fermiamo solo a questi però, qualsiasi scambio di informazioni potrebbe rientrare nella definizione, che si sovrapporrebbe a quella di comunicazione. Eco (1979, citato in Biagini, 1985) propone allora di considerare narrazione un discorso in cui siano identificabili degli agenti, una situazione che subisca un mutamento e un risultato finale (p.15).

L’Enciclopedia Treccani (2005)[2] alla voce “narrare” recita “esporre o rappresentare, a viva voce o con scritti o altri mezzi, vicende, situazioni, fatti storici e reali, oppure fantastici, vissuti o, più spesso, non vissuti in prima persona, riferendoli in modo ampio e accurato e nel loro svolgimento temporale”. Se ci atteniamo a questa definizione e la sommiamo al punto di vista di Biagini e di Eco, allora narrazione non è solo la storia contenuta in un romanzo: sono considerabili racconti i film, le canzoni, i telegiornali, le serie tv, i pettegolezzi tra amici, le chiacchiere al bar, perfino gli incontri di wrestling. Se ne deduce allora che chiunque può raccontare, che la maggior parte delle nostre giornate è immersa in vortici di narrazioni, tenute insieme dalla storia della nostra stessa vita.

Raccontare storie è un’azione antica, probabilmente risale a poco dopo la nascita del linguaggio, quando l’uomo ha sviluppato un modo condiviso per comunicare contenuti di varia natura. Ci si raccontavano storie sull’origine del mondo, su Dio, sul rapporto tra bene e male. Gli antropologi che studiano le religioni nel mondo non possono fare a meno di concordare sul fatto che ognuna di esse si basi essenzialmente su un racconto, un grande racconto che ha influenzato in maniera sostanziale la storia dell’uomo e il suo comportamento (Gottschall, 2012). L’autore a tal proposito scrive infatti che “i preti e gli sciamani di tutto il mondo sapevano ciò che la psicologia ha inseguito confermato: se vuoi che un messaggio penetri in una mente umana, inseriscilo in una storia” (p. 134-135).

Anche la storia stessa, quella che si studia a scuola, di fatto è una lunga narrazione, tanto che nei libri scolastici è definita proprio come “racconto di avvenimenti realmente accaduti, documentati da ricerche, fonti, ecc…”, e allo stesso modo sui libri di antologia i bambini imparano che l’epica è un insieme di “racconti delle imprese di grandi eroi”[3]. I termini “racconto” “narrazione” “storia” entrano fin da subito nell’immaginario collettivo e hanno uno scopo ben preciso: creare comunità, creare un substrato culturale condiviso che faccia da collante sociale. D’altra parte non è questo il motivo per cui sono nati i primi racconti, per stare tutti insieme intorno al fuoco? E non è forse questo lo scopo dello studio della storia e della letteratura, quello di trasmettere cultura? La storia come disciplina scientifica ha talmente tanto assunto questo ruolo che addirittura gli stessi eventi possono essere raccontati in maniera diversa a seconda del narratore e del contesto in cui si trova: in Europa tutti abbiamo studiato le gesta del grande condottiero Cristoforo Colombo che con coraggio e intraprendenza ha scoperto le Americhe, ma siamo tutti d’accordo sul fatto che probabilmente una piccola sioux sentirà raccontare una versione un po’ meno gloriosa ed emozionante della stessa impresa (Gottschall, 2012).

Raccontare non è solo scambiarsi informazioni, ha uno scopo più profondo e trasversale all’intero genere umano. Le storie servono per costruire un’identità collettiva, per collaudare un modo di pensare, per rafforzare la personalità, per dare suggerimenti, per creare sentimenti comuni. Possiamo vederla come una questione di sopravvivenza: al pari degli animali che si avvertono a vicenda sul pericolo imminente, così gli uomini si scambiano storie per salvare sé stessi, per salvarsi dalla solitudine, per conoscersi, per imparare. La narrazione è fortemente correlata alla natura dell’uomo: in quanto animale sociale, egli vive in relazione e tesse tali relazioni attraverso la narrazione. Raccontare serve per conoscersi, per chiarire avvenimenti, per incontrare l’altro e constatarne similitudini e differenze con noi stessi. Infatti per narrare l’altro, il destinatario, è necessario: che si tratti di una persona, di un pubblico, di uno schermo o di un foglio di carta, è un requisito essenziale che ci sia qualcuno a cui donare il racconto (Rodari, 1973; Gottschall, 2012; Portis, 2018).

La narrazione infine rende fruibile un’esperienza: ci accorgiamo di cosa ci sta accadendo quando raccontiamo l’esperienza in causa agli altri o a noi stessi. Raccontare è anche dunque un’attribuzione di significato, che nel tempo può variare e condizionare il nostro futuro. Si tratta della funzione conoscitiva del narrare spiegata da Portis (2018), che spiega come “attraverso il dispositivo narrativo si riesce a rendere visibili, esplicite e consapevoli le strutture di cognizione cui i soggetti si riferiscono” (p. 9).

 

Le storie per bambini

Essere un cantafiabe…
significa farsi centro vitale
di incredibili metamorfosi,
rinascendo ogni volta a ogni fiaba
.”

(Chirico, 2019, p. 175)

Tra fiaba e mito ci sono alcune importanti differenze. Come spiega Chirico (2019), la fiaba è locale, sociale e morale: è spesso legata al territorio in cui è nata, ne rispecchia le caratteristiche riadattandosi di luogo in luogo e anche i suoi significati fanno capo a un contesto socio-culturale abbastanza preciso. Inoltre le fiabe hanno come tratto caratteristico un insegnamento morale, utile a trasmettere significati e insegnamenti a coloro che la ricevono. Le fiabe sono poi spesso oggetto di interpretazione, la quale a sua volta può variare in base a luogo, tempo e contesto in cui ci si trova. Il mito è invece caratterizzato da opposizioni molto forti tra i personaggi, spesso al centro di una simbologia sacra con un’univoca chiave di lettura; i miti fanno riferimento soprattutto a natura, metafisica e cosmologia, più che a situazioni contingenti. Allo stesso tempo però i miti posseggono una marcata caratterizzazione culturale, finendo per “radicarsi in una specifica comunità, presentandosi come la più autentica espressione dell’identità culturale di un popolo” (p. 122). Le fiabe dal canto loro, essendo così facilmente soggette a variazioni e reinterpretazioni, restano più in superficie, trasversali a molti ambienti e quindi non specifiche di uno solo di essi. Proprio in virtù di queste osservazioni, “il linguaggio della fiaba sembra essere il linguaggio internazionale di tutta l’umanità, di tutte le età e di tutte le razze e le civiltà” (Franz, 1983, citata in Chirico, 2012, p. 123).

Dunque perché raccontare storie ai bambini? Già sono ampiamente immersi in innumerevoli trame e narrazioni nella vita di tutti i giorni, a cosa serve aggiungerne altre?

Le storie per bambini servono in primo luogo per aiutarli ad orientarsi: in un mondo che ancora non conoscono, imparare comportamenti e valori dai personaggi di un racconto è un modo semplice e sano per elaborare dei propri strumenti di interazione e soprattutto lettura del mondo. Le storie, fin dai tempi più antichi, venivano raccontate ai bambini perché essi imparassero cosa erano il bene e il male, cosa si poteva o non poteva fare, che chi sbaglia paga (Gottschall, 2012; Chirico, 2019). Basta guardare le versioni originali delle fiabe più famose per capire che il loro scopo era questo: Pinocchio nella prima versione di Collodi muore impiccato ad un albero, la Sirenetta si dissolve in schiuma di mare e così via. I riadattamenti Disney hanno voluto fare leva su significati diversi, ma l’intento resta pur sempre quello di trasmettere ai bambini valori come coraggio, amore, perdono.

Dalle fiabe i bambini imparano infatti che nel mondo c’è il bene ma c’è anche il male e che esso può essere affrontato: spesso infatti non vengono indagate le ragioni per cui il male esista, perché un cattivo è cattivo o perché avvengono le ingiustizie, questo è accettato come dato di fatto e così viene introiettato. Ciò che conta è come il male viene sconfitto, il fatto che sia possibile un rovesciamento delle situazioni, una vittoria per il protagonista e/o una possibilità di redenzione per il malvagio (Chirico, 2019, p. 147).

Condividere una storia significa anche prendersi cura dell’altro: è un momento di intimità, di scambio, in cui soprattutto un adulto e un bambino possono mettersi alla stessa altezza e mettere in comune ognuno un pezzo di sé. Verosimilmente infatti, ogni storia suscita in chi la riceve e in chi la dona delle emozioni e queste emozioni, in quel momento preciso, hanno un significato profondo e possono lasciare dei segni. Non è un caso che quando si legge un libro ad un bambino, egli insista per continuare ad oltranza o di ripetere la stessa storia infinite volte: non è solo un modo per esplorare spazi, tempi e mondi diversi, è anche un modo per tenere accanto a sé l’adulto, per restare ancora un po’ vicini (Chirico, 2019).

In questo senso, l’intero libro di Chirico “Mi racconti una storia?” (2019) è un valido esempio: l’autore spiega perché a suo avviso sia importante raccontare storie ai bambini, ma lo fa perché lui stesso ha usato la narrazione come strumento per restare accanto alla figlia, gravemente malata. Lui e sua moglie, attraverso l’invenzione di storie per e con la bambina, l’hanno accompagnata nel percorso terapeutico, aiutandola non solo ad accettare ciò che le stava accadendo, ma soprattutto a dargli un significato. Per scopi simili a questo, è nata infatti la fiabaterapia, una pratica psicanalitica basata sull’idea che le storie possano essere un mezzo per aiutare la persona ad elaborare i propri vissuti e anche ad affrontare le difficoltà, esplorando le proprie risorse interiori e la propria consapevolezza di sé. La fiabaterapia si fonda su tre principi: il messaggio di speranza e conforto che trasmette contro le brutture del mondo (di cui abbiamo già parlato); il fatto che sia costruita a misura di bambino e che quindi egli possa orientarvisi in libertà, senza sentirsi obbligato o vincolato; il fatto che “delinea un metodo, una strategia operativa, che è possibile attivare a partire dai propri vissuti” (Chirico, 2019, p. 211).

A proposito di quest’ultimo elemento, è bene aprire un discorso più ampio. Oltre alla distinzione tra bene e male, giusto o sbagliato, virtuoso o vizioso, c’è infatti un aspetto più profondo che traspare da ogni storia: la possibilità. I protagonisti delle storie hanno sempre un problema, ad un certo punto sono costretti o decidono di affrontarlo e tendenzialmente, con l’aiuto di altri personaggi, di circostanze varie e del proprio valore, riescono quasi sempre nell’impresa. Lo scopo è che i bambini introiettino esattamente questo messaggio di potenzialità e coraggio, che sentano di poter anche loro trovare soluzioni nuove ai problemi. È importante “allenare” i bambini sotto questo punto di vista perché la loro fantasia di oggi, quella infantile e giocosa, domani potrebbe trasformarsi in quella capacità di rielaborazione e adattamento che farà di loro degli adulti dinamici e consapevoli delle proprie risorse. Per questo motivo è importante che non solo le storie siano ascoltate, lette, viste ma anche inventate, perché sia il ricevente stesso a mettersi in gioco, per provare a risolvere un problema, a saltare un ostacolo o sconfiggere un nemico (Rodari, 1973).

Inoltre, le storie creano connessioni e aprono altre parentesi. Non si tratta solo del contatto di cui prima tra adulto e bambino: ascoltare e accettare una storia significa assumere che possano esistere mondi diversi con regole diverse, che l’altro possa avere caratteristiche e valori diversi da quelli a cui siamo abituati ma che comunque in lui possa esserci del buono. Quindi è vero che può esserci il lupo cattivo nel bosco, che le cose brutte succedono anche e soprattutto a chi non se le merita, ma è altrettanto vero che un drago può essere un amico e che forse gli orchi non sono poi così male, che se fai una carezza ad un mostro magari ricambierà anziché morderti un dito.

Non bisogna dimenticare infine che le storie, le fiabe, fanno parte non solo del bagaglio culturale che contraddistingue un popolo o un territorio, ma anche della storia di una vita. Quanti di noi ricordano ancora quella storia che i genitori raccontavano loro da piccoli? Loro se la ricordano? E di quel cartone animato visto e rivisto mille volte? Non sono poi le stesse storie che forse racconteremo ai nostri figli, cugini, nipoti, piccoli amici? Le storie allora viaggeranno tra luoghi e tempi e diventeranno davvero una ricchezza condivisa, un patrimonio particolare, a volte forse sottovalutato, ma che concorre, al pari di tante altre esperienze, a definire chi siamo. A mio avviso, questo è un regalo che ai bambini va fatto spesso e senza chiedere nulla in cambio: piccole gocce di fantasia che stillano lentamente ma con costanza, possono lasciare davvero il segno.

 

L’espressione

“Il bisogno di esprimersi e di raccontarsi all’altro
è uno dei bisogni primari dell’essere umano;
la sua soddisfazione è fonte di gioia e di benessere,
espansione di energia e presupposto alla produzione di stili di vita sani”

 

(Le Boulch e Melica, n.d., citati in Casolo e Melica, 1996).

Il termine espressione è definito come “manifestazione, estrinsecazione di sentimenti e pensieri … Atteggiamento che manifesta sentimenti o stati d’animo” (Zingarelli, 2001, p. 383). Riuscire a esprimersi significa dunque saper tradurre in un linguaggio condivisibile qualcosa che altrimenti rimarrebbe puramente interno e soggettivo. Di espressività si può parlare in diversi ambiti: artistica, genica, facciale, musicale, corporea, clinica, ecc. Ai fini di questa trattazione, non analizzeremo un contesto particolare, ma faremo un discorso più ampio legato ad espressione e consapevolezza.

Nonostante il narrare sia, come abbiamo dimostrato, un’azione ben più quotidiana di quanto ci si renda conto, saper raccontare può comunque non essere un’azione così scontata. Essa infatti implica una serie di requisiti: avere chiaro cosa si vuole raccontare, sapere come raccontarlo, essere sicuri dei propri mezzi, sapere che qualcuno riceverà il racconto, sentirsi a proprio agio nel farlo.

Finora, parlando di raccontare storie, si è sempre cercato di utilizzare termini come condividere una storia, riceverla, donarla. Il motivo di questa scelta lessicale risiede nel tentativo di essere il più inclusivi possibile proprio nei confronti dei diversi modi con cui è possibile raccontare: se una storia può essere detta, scritta, raffigurata, mimata, allora non ci si può limitare riferendosi a chi ascolta.

Valutare l’espressività di qualcuno è piuttosto complesso perché si tratta di una capacità decisamente soggettiva: solo chi esterna un contenuto può sapere quanto esso si avvicini alla propria visione interiore. Chi sta “fuori” può esprimere un giudizio sul modo in cui il contenuto è stato esposto, sulla chiarezza, sulla coerenza interna, anche sul significato, ma di certo non può fare un confronto col sentimento da cui questo è scaturito. Allora forse il focus va spostato dal contenuto a chi lo esterna, basandosi esclusivamente sul suo sentire: si ritiene soddisfatto? Gli sembra di essere stato chiaro? Come reagisce al feedback di chi ha ricevuto il suo racconto? Che effetto ha fatto?

Senza contare tutti quegli aspetti interni ed esterni che possono concorrere per influenzare un’esposizione: timidezza, introversione, un ambiente che non mette a proprio agio, un’interruzione, un’altra qualunque difficoltà.

Bisogna considerare che “esprimersi” può voler dire tante cose e che nessuno di questi significati ha più o meno valore di altri. Di primo acchito si potrebbe pensare che la parola sia il primo e più immediato strumento per trasformare il soggettivo in oggettivo, ma sarebbe affrettato come giudizio. Ad esempio prima delle parole c’è il corpo: le smorfie del viso, il movimento delle mani, della testa, la postura e poi ancora le lacrime, il sudore, i brividi, possono essere tutti espressione di qualcosa. Usando il corpo è possibile ballare, suonare, recitare, costruire, dipingere, scolpire e sono tutti modi con cui si potrebbe raccontare una storia. Infine ci sono le parole, scritte, dette o cantate, che possono mettersi al servizio della stessa funzione (Atkinson & Hilgard, 2009).

È bene saper riconoscere e rispettare ognuno di questi metodi per esprimersi perché sono considerati tutti validi e ognuno ha il diritto di cercare, trovare e usare quello che in un dato momento reputa il più congeniale a sé e al contesto.

Questo aspetto è molto evidente nel lavoro con i minori: ci sono quelli che quando sono tristi piangono, quelli che non parlano, quelli che ti raccontano subito cosa sta succedendo loro. Spesso di fronte ad un bambino muto ci si spaventa, specie se sembra in difficoltà e non ci permette di avvicinarlo, magari non reagisce o volutamente ci ignora. Eppure il silenzio è uno strumento di comunicazione, in quel silenzio può esserci qualcosa che si agita e sta all’educatore saper trovare il modo e il tempo giusto per farlo uscire: ad alcuni serve solo altro silenzio, ad altri un abbraccio, a qualcuno di essere distratto e poi tornarci più tardi, i più particolari sono quelli a cui basta un foglio davanti e senza parlare danno forma e colore a ciò che accade loro dentro. Lo studio del disegno infantile è un metodo sempre più diffuso in ambito clinico e diagnostico, e non si tratta forse dello studio di una forma di espressione? (Garzone, 2017; Galuppi, n.d.)

Anche l’arteterapia lavora in questa direzione: lo scopo è che l’utente si senta libero di esplorare e usare i materiali a disposizione come meglio crede e soprattutto come si sente, per poi riportare tutto ad un momento di confronto finale in cui si indagano più o meno approfonditamente le scelte fatte e i significati delle opere (Marciano, n.d.).

Come accennato prima, lo stesso discorso vale ad esempio per la danza o la musica: sono entrambi strumenti per raccontare e raccontarsi, per trasmettere un messaggio, per portare fuori ciò che l’artista ha dentro. Zagatti (2004, citata in Fabris, 2015) spiega che la danza educativa è “finalizzata alla formazione della persona globalmente intesa e in particolare alla consapevolezza espressiva del bambino, che unisce spontaneità e organizzazione del movimento” (p. 220) ed è proprio sul concetto di consapevolezza che è importante porre l’accento. Secondo Atkinson & Hilgard (2009), la consapevolezza è la capacità di riconoscere ciò che ci accade, dentro e fuori e fa capo alla coscienza, che include sia il monitoraggio di noi stessi e del nostro ambiente, sia il controllo di essi (p. 202). Riuscire ad esprimersi di fatto richiede lo stesso sforzo: riconoscere ciò che abbiamo dentro e trovare un modo per portarlo fuori.

Si può chiudere questa riflessione ponendo l’accento sul “carattere processuale delle arti, che non servono solo per comunicare idee. Sono modi di avere idee, di creare idee, di esplorare esperienze in modi particolari e di modellare la nostra conoscenza di tutto questo in nuove forme” (AA.VV., 1989, citato in Fabris, 2015).

Imparare ad esprimersi è dunque un requisito importante per stare bene con sé stessi e nel mondo, e ormai dovrebbe essere sottinteso che col termine “esprimersi” non si intenda la sola verbalizzazione del pensiero ma un’esternalizzazione di qualsivoglia natura del proprio vissuto soggettivo. Essendo una capacità così importante, sarebbe bene allora iniziare a lavorarci fin da piccoli, aumentando così le probabilità che i bambini a poco a poco diventino adulti liberi e consapevoli. Non si tratta solo di trasmettere l’importanza della libertà di espressione e di manifestazione del proprio pensiero, ma di costruire gli strumenti per poter esercitare questi diritti. A tal proposito è pertinente la collaborazione dagli anni 50 in poi tra Rodari e Otello Sarzi, artista e sperimentatore del teatro dei burattini. Quest’ultimo, secondo Rodari (1973), ha dato una svolta alla propria attività quando anziché portare gli spettacoli al pubblico, ha iniziato ad andare nelle scuole ad insegnare ai bambini a costruirsi da sé i loro burattini e marionette. Non ha dunque più proposto loro un prodotto finito nel quale potessero riconoscersi passivamente, ma li ha resi protagonisti attivi, dando loro in mano uno strumento per poter creare da sé un personaggio o una storia, stimolando la capacità di ognuno di esprimere sé stesso.

 

L’immaginazione

“Oggi più che mai il filo dell’immaginazione si pone come una corda tesa
verso un futuro che non sappiamo ancora completamente prevedere”

 

(Mecocci, 2020)[4].

Mecacci (1990), nell’introduzione a “Immaginazione e creatività nell’età infantile” di Vygotskij (1967), sottolinea come l’intento dell’autore fosse quello di analizzare il concetto di creatività “facendone una regola piuttosto che un’eccezione dell’attività mentale umana” (p. XI). Troppo spesso infatti immaginazione e fantasia vengono sottovalutate a livello psichico e cognitivo, e considerate come qualità straordinarie che si possono o meno possedere ma che, salvo casi particolari, non hanno poi tutta questa utilità. Vygotskji analizza le relazioni che possono intercorrere tra realtà e fantasia e usa questa teoria come base per dimostrare che chiunque è dotato di immaginazione, purché ne sia consapevole. È possibile immaginare qualcosa a partire da dei dati di realtà effettivamente sperimentati, ad esempio un albero che al posto dei frutti ha dei pon-pon; si può partire dalla realtà descritta da qualcun altro e aggiungervi qualcosa di nuovo, ad esempio io non sono mai stata in Egitto ma riesco ad immaginare una piramide, e desidero che sia blu; elementi diversi possono essere accomunati nella mente da un sentimento, un legame emozionale che intreccia realtà e percezioni; infine ci sono le invenzioni, prodotti dell’immaginazione che poi diventano realtà, come le macchine volanti di Leonardo. La fantasia è dunque considerata un processo a 3 fasi: dissociazione, cioè estrapolare un elemento dal suo stato originale; mutamento, cioè modificarne le caratteristiche; nuova associazione, cioè adattarlo ad un nuovo contesto o affiancarlo a qualcosa di nuovo e diverso (Vygotskij, 1967).

Queste dinamiche possono essere fortemente influenzate da elementi soggettivi come emozioni, desideri, bisogni e dall’ambiente circostante. Come abbiamo spiegato prima, il legame emozionale che si crea tra realtà e sentimenti che ne derivano, può avere un forte impatto sulla percezione che ne abbiamo e sulle costruzioni mentali che ne conseguono. Anche bisogni e desideri possono concorrere all’attività creativa produttiva in quanto motori del processo: la mente si attiva e produce nel momento in cui sente una necessità da soddisfare o un problema da risolvere. È bene infine non dimenticare che, come in qualunque altra attività umana, l’ambiente ha una grossa influenza sulle possibilità della mente di sperimentarsi. Vigotskij, riprendendo Weissmann (n.d.), per spiegare questo concetto propone di ipotizzare un bambino con il talento e il genio di Mozart, nato però nelle isole Samoa: che cosa potrà fare? Avrà i mezzi per studiare e poi creare meraviglie come Mozart? Probabilmente no. “Qualsiasi inventore, foss’anche un genio, è sempre una creatura del suo tempo e del suo ambiente” (p. 33) spiega l’autore, ponendo l’accento in particolare su come questo dato spesso sia sottovalutato: la creatività dipende da condizioni materiali e psicologiche che prescindono dal soggetto, ma che sono proprie dell’ambiente in cui è nato ed è inserito. A questo proposito mi viene in mente una discussione avuta di recente con un bambino di 11 anni, che sosteneva con orgoglio che le persone più importanti della storia siano uomini perché in generale essi sono meglio delle donne. Tralasciando i motivi di queste affermazioni (suppongo un insieme di stadio dello sviluppo e retaggio culturale), è stato interessante spiegargli che la ragione di questo dato risieda nel fatto che “semplicemente” alle donne da sempre, e ancora oggi, non sia permesso di studiare e senza un’istruzione è difficile ricoprire certe cariche o fare grandi scoperte. Non so se sia riuscita a convincerlo, ma il ragionamento fatto per il diritto allo studio è lo stesso di poco fa sull’immaginazione: se non ti viene data la possibilità di allenare la tua mente ad espandersi in direzioni nuove, se non hai lo spazio, il tempo e la libertà per divagare, esplorare, costruire e decostruire, probabilmente non è una capacità che svilupperai con facilità e che quindi non saprai sfruttare in futuro.

Spesso si sente dire o si legge che la fantasia è una prerogativa dei bambini e che poi da adulti vada perdendosi, ma perché? Sempre secondo Vygotskij (1967), ciò che cambia nel passaggio tra infanzia e età adulta è il raziocinio: più diventiamo capaci di spiegare, comprendere e ordinare le cose, meno siamo disinvolti nel saltare da una all’altra, decostruirle e farne qualcosa di nuovo. La creatività invece è una dote comune a tutti e che può essere utile in ogni momento della vita (pp. 37-42).

A queste considerazioni si collegano gli studi di Antonietti (n.d.)[5] che, riprendendo altri autori, sottolinea come la creatività sia una facoltà comune a tutti, ma che essa differisca sia per quantità che per qualità. Egli cita Taylor (1959), che ha distinto 5 tipi di creatività: espressiva, produttiva, inventiva, innovativa ed emergente. Questa distinzione non è tanto utile a fare delle classificazioni, quanto a sottolineare il fatto che la creatività, come l’intelligenza, sia fatta di sfumature: i primi tre tipi sono più legati alla risoluzione di problemi della vita quotidiana, gli altri due riguardano il mondo della scienza, dell’arte e in generale dell’invenzione.

Ad oggi il dibattito sulla definizione di creatività è ancora aperto e combattuto, così come sono in costante evoluzione gli studi sugli strumenti adatti a misurarla e valutarla. Antonietti sintetizza i passaggi della storia della definizione, sintetizzandoli poi con queste parole: “si tende a considerare la creatività come una specifica capacità cognitiva che pone l’individuo in grado di risolvere con successo precise situazioni problematiche” (p.5). Giunge alla stessa conclusione anche Scuderi (2007)[6], che sottolinea come la produzione creativa sia influenzata non tanto dalla capacità di applicare regole fisse, ma da doti relazionali, percettive e attivazione di risorse che sono strettamente personali.

A questo punto della riflessione dovrebbe essere chiaro che esercitare l’immaginazione non sia una questione poi così superficiale o ininfluente, soprattutto in ambito educativo. L’immaginazione ha un posto d’onore nella cassetta degli attrezzi che ognuno di noi dovrebbe portarsi dietro per affrontare ogni giorno: di fronte a difficoltà, imprevisti o semplicemente novità, essere pronti a trovare soluzioni può essere ciò che fa la differenza. Proprio perché l’infanzia è l’età della fantasia, proprio perché la razionalità adulta non ha ancora occupato tutto lo spazio, proprio perché “il bambino non è un vaso da riempire ma un fuoco da accendere” (Rabelais, 1494-1553), allora è di fondamentale importanza insistere e stimolarlo fin da subito.

Considerare l’immaginazione come il campo delle possibilità è anche ciò che ha fatto Calvino (1985, citato in Chirico, 2019), definendola come “il repertorio del potenziale” (p.104): con l’immaginazione possiamo creare scenari che appartengono alla vita reale del tutto, in parte o per nulla, possiamo sperimentare, ipotizzare risposte, esplorare aspetti che terremmo lontani nella vita di tutti i giorni. Rodari (1973) infine incalza dicendo che creativa sia la mente che fa domande, che è sempre in moto, che risolve problemi ma che soprattutto “rompe continuamente gli schemi dell’esperienza” (p. 179) per andarvi oltre. Tutte queste e molte altre teorie, non fanno altro che avvalorare l’idea che la creatività debba essere considerata a tutti gli effetti una delle principali ed essenziali capacità umane e che come tale vada vista, stimolata e valorizzata in tutti i contesti, soprattutto quelli educativi.

Concludiamo con la riflessione di Oliva (2015)[7], che sottolinea come “educare alla creatività” sia un proposito assolutamente coerente e parallelo all’educare di per sé: se educare significa sostenere ed accompagnare la persona in un percorso di ri-appropriazione del sé, di costruzione di ponti tra l’io e l’altro, allora così si dovrebbe fare con la creatività, presentandola e coltivandola come uno degli strumenti per superare gli ostacoli e affermarsi nel mondo come soggetti attivi e consapevoli.

[1] http://www.edartes.it/doc/MAR_2015_45-51.pdf
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/narrare/
[3] Note tratte dai quaderni di un alunno di prima media della scuola Bobbio di Torino, è impossibile risalire alla fonte.
[4] http://www.tuttaunaltrascuola.it/piccolo-bambino-li/
[5] http://maaz.ihmc.us/rid=1211301786574_1896972562_5402/P_pensiero%20conve-dive.pdf
[6] http://www.analisiqualitativa.com/magma/0502/articolo_09.htm
[7] http://www.edartes.it/doc/MAR_2015_45-51.pdf (Oliva)

BIBLIOGRAFIA

Antonietti, A. (n.d.). Il pensiero creativo. Appunti sullo studio psicologico degli aspetti cognitivi della creatività. Erickson Portale Internet
Atkinson & Hilgard (2009). Introduzione alla psicologia. Piccin Nuova Libraria S.p.A. (Originariamente pubblicato nel 2009)
Bettelheim, B. (1977). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Feltrinelli Editore. (Originariamente pubblicato nel 1975)
Biagini, E. (n.d.). Le forme della narrazione. In Frabboni, F., Maragliano, R., Vertecchi, B. (1985). La narrazione. Fare scuola/1 (pp. 11-25). La Nuova Italia Editrice
Casolo, F., Melica, S. (1996). Il corpo che parla. Comunicazione ed espressività nel movimento umano. Vita e pensiero
Chirico, G. (2019). Mi racconti una storia? Perché narrare fiabe ai bambini. Meltemi Linee
Domenici, G. (n.d.). Valutazione e autovalutazione come risorse aggiuntive nei processi di istruzione. Education Sciences & Society
Fabietti, U. (2010). Elementi di antropologia culturale. Mondadori Università
Galuppi, E. (n.d.). L’arte narrativa del disegno infantile.
Garzone, F. (Cur). (2017). Un nuovo mondo per una nuova educazione? L’educazione alla sostenibilità nell’equilibrio uomo natura. Storia dei Modelli Pedagogici e delle Istituzioni Assistenziali. Università degli Studi di Torino
Gobo, G. (1999). Le note etnografiche: raccolta e analisi. Quaderni di Sociologia, 21.
Goleman, D. (2013). Focus. Perché fare attenzione ci rende migliori e più felici. Edizione Mondadori Direct S.p.A.
Gottschall, J. (2012). L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Bollati Boringhieri
Marciano, G. (n.d.). Elettività del’arteterapia in età evolutiva. Arti terapie, Studi e ricerche, 5-8.
Miller, B. (2013). Antropologia culturale. Pearson Education Inc
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Cur.). (2012). Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. Annali della Pubblica Istruzione, Numero speciale, Anno LXXXVIII
Oliva, G. (2015). Le arti espressive come pedagogia della creatività. Scienze e ricerche, N.5, 45-51
Parsi, R.P. (2017). Generazione H. Piemme Editore
Pontremoli, A. (2015). Elementi di teatro educativo, sociale e di comunità. UTET Università
Portis, L. (Cur.). (2018). Andata e ritorno. Percorsi tra genitori e figli. ANANKE lab s.c.
Propp, V. (1966). Morfologia della fiaba. Einaudi Editore. (Originariamente pubblicato nel 1928)
Rapisarda, V. (2016). Cenni sulla musicoterapia. Formazione Psichiatrica, Gennaio-Giugno 2016
Rodari, G. (1973). Grammatica della fantasia. Einaudi Ragazzi
Scuderi, A. (2007). Creatività e approccio narrativo. M@GM@, vol.5, n.2.
Sermig – Fraternità della Speranza (Cur.). (2019). Una sabbia di castello. Priuli &Verlucca
Severi, I., Tarabusi, F. (Cur.). (2019). I metodi puri impazziscono. Strumenti dell’antropologia e pratiche dell’etnografia al lavoro. Licosia
Torre, E.M. (2014). Dalla progettazione alla valutazione. Modelli e metodi per educatori e formatori. Carocci Faber
Trinchero, R. (2004). I metodi della ricerca educativa. Editori Laterza
Vygotskij, L. (1967). Immaginazione e creatività nell’età infantile. Copyright Editori Riuniti. (Originariamente pubblicato nel 1930)
Zingarelli, N. (2001). Espressione. Lo Zingarelli minore (p. 383). Zanichelli, edizione Terzo millennio

SITOGRAFIA

www.aepcis.it
www.analisiqualitativa.com
www.arteterapia.it
www.edartes.it
www.erickson.it
www.formazionepsichiatrica.it
www.miur.gov.it
www.musicoterapia.it
www.pbworks.com
www.riviste.unimc.it
www.treccani.it
www.wikipedia.it

This website uses cookies. By using our website you consent to all cookies in accordance with our Cookie Policy. Click here for more info

Ok