Staffan De Mistura all'Università del Dialogo
Publish date 17-03-2021
Avevo 17 anni, ero volontario a Cipro. Vedo dei bambini che giocano a pallone. A un certo punto ne vedo uno sugli 8-9 anni che cade a terra, colpito al collo. Era stato un cecchino. Staffan De Mistura non dimenticherà mai quel giorno, la scintilla di dolore e sdegno da cui tutto partì: una carriera decennale da diplomatico nelle Nazioni Unite, l’impegno come inviato speciale in Afghanistan, Iraq, Siria. «Da allora decisi che avrei fatto di tutto per evitare le sofferenze dei civili, per cercare formule di negoziazione, ma anche aiuti concreti».
Negoziare: da una parte i valori in cui si crede, dall’altra la ricerca continua di un compromesso. Qual è il metodo giusto?
Esistono tecniche diverse. Per cominciare ascoltare l’altra parte. Secondo: osservare. Scoprire cosa c’è dietro quel popolo, quel leader, anche quel gruppo di guerriglieri che ha ucciso: forse la paura dell’altro, la vendetta di una violenza subita, una paura ancestrale?
Tutto questo in qualche maniera bene o male va studiato. Bisogna poi cercare di trovare un minimo comun denominatore. Quando c’è una possibile zona d’intesa, non bisogna toccare subito il vero problema della questione.
Non da ultimo, considerare l’aspetto emotivo perché non negoziamo con delle macchine ma con uomini e donne. Posso non condividere cosa dicono e fanno ma devo provare a comprenderli. Solo così posso creare quell’atmosfera di piccola fiducia che può essere come un rompighiaccio per trovare il dialogo.
Lei nella crisi umanitaria dell’Albania negli anni ’90 si ritrovò addirittura ad abbracciare…
Proprio così. Lo sperimentai a Kukes, alla frontiera tra l’Albania e l’allora Kosovo.
Arrivavano folle interminabili di rifugiati umiliati e terrorizzati, sotto il fuoco dei cecchini. Noi li accoglievamo con coperte, cibo e medicine, ma mi resi conto che avevano bisogno anche di altro. Decisi di avanzare a braccia aperte, abbracciando il primo del convoglio affinché tutti gli altri vedessero che in fondo erano benvenuti.
Come a dire: ce l’avete fatta. Molto spesso cominciavano a piangere in quel momento perché al posto di un cecchino trovavano un abbraccio.
Le relazioni internazionali al contrario sono basate su rapporti di forza. Siamo passati da un mondo diviso in due blocchi a un mondo che appare più policentrico e che spesso sembra guidato dagli interessi economici…
È vero. Anche nella politica internazionale ci sono dei momenti in cui prevale la forza, una regola del gioco molto crudele perché prima o poi la forza si ritorce contro chiunque la usi.
Le guerre non vengono mai veramente vinte perché lasciano sempre problemi per il dopo. Lo abbiamo visto con la prima guerra mondiale che in qualche modo ha preparato la seconda. È successo anche nel dopoguerra con un mondo gestito in termini di rapporti di forza tra due blocchi: il blocco sovietico con il patto di Varsavia e il blocco della Nato dei Paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti. Non è stato un bel periodo perché avevamo il muro di Berlino e la minaccia di uno scontro nucleare permanente. Però c’era un vantaggio: erano in due a parlarsi o no e l’ONU poteva trovare delle formule di dialogo. Oggi abbiamo un mondo multicentrico con tante Nazioni che hanno agende diverse da realizzare. Io l’ho visto nella guerra siriana con 11 Paesi coinvolti direttamente o indirettamente e 5 armate o presenze militari di grandi Nazioni. Questo rende molto più complicato il nostro lavoro. La buona notizia è che più la situazione è complicata, meno è facile pensare che una sola Nazione possa prevalere su tutte le altre. E lì c’è spazio per il multilateralismo, per il ruolo delle Nazioni Unite a condizione che venga dato spazio.
Come si fa a negoziare in questi casi così difficili con attori che spesso hanno le mani sporche di sangue? Cosa significa dialogare concretamente?
La Siria è un caso da manuale. Il Governo riteneva e tuttora ritiene che ogni oppositore sia un terrorista. Da parte dell’opposizione l’idea era che il governo guidato dal presidente Assad dovesse andarsene via ad ogni costo. Quindi, nessuna forma di dialogo possibile. A quel punto, devo ricordarmi che non sono entrato nelle Nazioni Unite per dare ragione all’uno o all’altro.
Quello lo fa un giudice o l’avvocato quando sostiene il proprio cliente. Nel mio caso, il vero obiettivo era fare di tutto per ridurre la sofferenza della popolazione.
E quindi proporre, insistere, formulare, magari per far arrivare un convoglio umanitario o stabilire una tregua, per far capire che a certe condizioni nessuno vince la guerra, ma nemmeno la pace. Questo è sempre stato il mio sforzo.
La forza della guerra sono anche le armi, un mercato alimentato da tutti, anche dall’Italia. È utopistico pensare di contrastarlo? Quale può essere concretamente la forza della pace?
Sono sincero: immaginare un mondo senza armi credo sia molto difficile. Ma non c’è alcun motivo, alcuna giustificazione che si continuino a costruire armi sempre più micidiali e usarle indiscriminatamente contro i civili, come è avvenuto in Siria, in Libia e in Yemen. L’opinione pubblica, i cittadini possono fare molto. Ricordo le mine antiuomo. Erano dovunque, prodotte indiscriminatamente da tutti, anche dall’Italia. Ebbene, una campagna partita dal basso riuscì a creare una tale mobilitazione che oggi le mine vengono ancora usate da alcuni ma con grande imbarazzo perché considerate ormai armi da non usare. Questo ci dà speranza. Quindi dobbiamo insistere, anche se da quando è al mondo l’uomo ha voluto produrre ed usare le armi. Ma questo non è un buon motivo per rassegnarsi.
Lei parla di campagne di opinioni dal basso. Ma sull’onda della pandemia e della crisi economica, non vede il rischio di un ripiegamento su di sé anche delle opinioni pubbliche?
Sì, lo vedo. È successo per esempio sulla Siria. Quando assunsi l’incarico di inviato speciale, mi resi conto che il mondo cominciava a stancarsi delle notizie su quel Paese e i morti diventavano semplicemente dei numeri.
Ricordo che un gruppo di donne siriane mi aiutò a cambiare questa tendenza allo scoraggiamento. Mi diedero due enormi libri neri, con la copertina nera, che contenevano i nomi, la data di nascita e la data di morte di 300mila siriani. Donne, bambini, uomini che avevano un nome, esistevano, erano come me, come te. Questo mi aiutò quando dovetti parlare al Consiglio di Sicurezza. I numeri cambiavano e tornavano ad essere persone in carne ed ossa, esseri umani. Esseri umani che in parte sono diventati anche rifugiati, e che abbiamo ritrovato nei nostri Paesi.
Questo tempo di pandemia cosa dice concretamente ai rapporti tra gli Stati?
Ci dice qualcosa al momento giusto, perché avevamo costruito un mondo in cui dire "io conto più degli altri", io faccio prevalere la forza, prima me e la mia Nazione, poi gli altri. A un certo momento questo piccolo microscopico, piccolissimo, invisibile, crudele e in qualche maniera intangibile nemico, ha iniziato ad attaccare tutti. Le Nazioni le più potenti, le più armate e le più disarmate, quelle che hanno una economia maggiore e quelle che hanno piccole economie, gli uomini le donne di qualunque ceto e di qualunque capacità anche personale. Cosa ci dice questo? Che le grandi sfide dell’umanità non possono essere risolte da una persona sola o da un singola Nazione.
Si può solo ottenere qualcosa solo lavorando assieme. Questo vale per la fame, per la povertà, per il clima e, adesso, per la pandemia. Spero che il covid ci faccia capire definitivamente che solo insieme possiamo affrontare queste sfide e quelle che verranno.
Matteo Spicuglia
NP aprile 2021