Nonostante i raffinati strumenti di elaborazione e conoscenza a disposizione, oggetto negli anni di notevoli studi, anche premiati col Nobel, il mercato ha di fatto ignorato le più che possibili conseguenze delle scelte intraprese e dei rischi assunti, fino a che non si sono materializzati, inesorabili. In questi ultimi decenni l'economia americana, e al suo seguito quella globale, sempre di più si è affidata alla finanza per permettere al sistema economico nel suo insieme di mantenere un certo livello di crescita anche in uno scenario internazionale che segna il grande recupero come competitori globali di paesi che aggressivamente vogliono il loro spazio anche a scapito delle potenze economiche più consolidate.
Crescita che ha alimentato per lungo tempo se stessa, incurante delle pesanti avvisaglie di crisi che già si erano manifestate alla fine degli anni '90 per la spericolata e dolosa avventatezza di alcuni grandi operatori – Enron il più noto -, già allora puniti da pesanti crack, assieme ai dipendenti e risparmiatori coinvolti. La memoria di questi eventi è stata rapidamente cancellata nei media.
Una finanza non utilmente al servizio della efficiente allocazione dei capitali nella economia reale, ma finalizzata ad autosostenere soprattutto i propri profitti in una maniera sempre più articolata, complessa, e diffusa, ha finito per generare un progressivo scollamento tra il reale e il suo aspetto finanziario.
Ciò è avvenuto tanto nella percezione degli operatori specializzati, quanto in quella della gente semplice, di chi ha confidato di poter allargare i propri orizzonti partecipando nel proprio piccolo ai vantaggi ovunque propagandati.
Si può dire che in un tempo in cui è molto cresciuta nel mondo l'enfasi nel comunicare insicurezza e paura per varie situazioni – strumentale a lucrare e consolidare vantaggi politici -, molta più cautela si è avuta, almeno fino a pochi mesi orsono, nella comunicazione al pubblico dei rischi inerenti le scelte di investimento del risparmio in strumenti apparentemente vantaggiosi.
Da parecchio tempo abbiamo assistito ad un comportamento degli operatori di borsa sempre meno correlato a quello dei fondamentali dell’economia. Talvolta per eccessiva euforia, a volte per reazione paranoica in negativo di fronte, ad esempio, alla crescita dei risultati di una azienda, crescita magari impressionante in valore assoluto, ma reputata ancora inferiore alle attese degli analisti.
Non tutti perdono quando la borsa scende, in particolare l’evidente componente speculativa che, attraverso vendite allo scoperto scommette sul ribasso delle quotazioni; ma di fatto concorre a determinarlo.
La logica del cercare un risultato nel breve termine che legittimi top managers e i loro favolosi compensi, senza considerare la tendenza che tali scelte determinano nel medio periodo, ha ancora una volta ignorato la realtà, anche di fronte all’evidenza.
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Anche se la crisi è stata certamente il risultato di iniziative e scelte dei grandi, e piccoli, operatori della finanza, vale però la pena ricordare che un ruolo non secondario hanno anche avuto le scelte di persone e famiglie, a partire da quelle che si sono abituate a ricorrere sempre più al credito. Scelte singole di entità modesta – rispetto al sistema economico nel suo insieme, ma non rispetto a redditi e ricchezze dei singoli, e che hanno nell’insieme dato luogo ad un aggregato di dimensioni molto grandi.
Radici della crisi sono infatti anche nella cultura del credito al consumo, propria da decenni dell’ambiente degli Stati Uniti, dove anche transazioni di modesta entità vengono quasi sempre regolate mediante strumenti di credito che inducono a sottostimare l’impatto delle spese fatte, e normale è il ricorso al credito in misura anche non proporzionata alla potenziale capacità di rimborso. Tendenza che aggressivamente si cerca di far espandere anche presso la nostra e altre culture finora fortunatamente più propense alla cautela e al risparmio, e oggi meno minate, almeno sotto questo punto di vista, dalle conseguenze della crisi.
Il credito però non è uno strumento di incremento del reddito, bensì l’anticipazione di un reddito futuro. In questo senso è materializzare da subito il beneficio di un risparmio costante nel tempo, con benefici che si estendono ben al di là della condizione del singolo consumatore. Ma un incauto ricorso – agevolato da una non meno incauta e colpevole concessione – non può che provocare conseguenze negative, tanto più in uno scenario in cui i redditi sono resi ancora più vulnerabili dall’instabilità dei posti di lavoro.
Si può obiettare che è facile fare un passo più lungo della gamba, quando questa è particolarmente corta; ma, se il problema è di allargare le possibilità di chi ha meno, non è il credito la soluzione e quanto viene offerto, benché allettante, può essere una trappola per coloro a cui viene offerto. È comunque e sempre la saggezza che deve ispirare ogni scelta.
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Anche su questo crescente volume di prestiti per la casa e prestiti personali si è poi innestata la speculazione degli operatori professionali.
Non sono i contratti derivati in sé a essere la causa del disastro, come un qualunque strumento di lavoro non lo è rispetto ai danni che con esso si possono procurare. Ovviamente la causa sta nell’uso incauto, spregiudicato, che se ne fa, purtroppo non proibito.
La speculazione di per sé è un elemento positivo nell’economia; è il premiare – come da etimologia – chi vede meglio, chi vede prima, e attua una iniziativa rischiando del proprio. Ma quando diventa perseguire un fine proprio immediato che contrasta diametralmente con la logica di un ordinato sviluppo dell’economia, reale per intendersi, quella fatta di stabilimenti industriali, di commercio, di trasporti, infrastrutture, allora è una malattia che devasta.
La visione più liberista dell’economia, quella che idealizza un mercato – incontro tra domanda ed offerta – libero da ogni vincolo e arbitro supremo del suo stesso operare che non può che volgersi all’interesse di tutti, è fondata sull'assioma che "non esiste una cosa come un pasto gratis". Assioma di per sé corretto: un pasto ha sempre e comunque un suo costo, sia quando regolarmente pagato da chi lo consuma, sia quando elargito in un qualunque modo. Corollario: che ognuno si metta in condizione di far fronte alle proprie esigenze, senza tirarsi mai indietro dall’obbligo di dover dare per avere.
Ma nella finanza, cardine proprio del libero mercato, questo principio non vale.
Qui è possibile vendere un titolo senza possederlo. Allo stesso modo acquistare per consegna futura migliaia di barili di petrolio o tonnellate di grano, iniziando a pagarne solo una piccola parte. O ancora scommettere su rialzi o ribassi, senza né comprare né vendere intere quantità, ma solo investendo in misura pari all’entità di rialzo o ribasso che si ritiene avverrà; di per sé può apparire corretto, ma così è possibile investendo cifre relativamente modeste innescare movimenti nelle quotazioni di proporzioni ben maggiori.
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E nel caso in cui, mutuo dopo mutuo concesso a chi mai potrà rimborsarlo (ossia subprime), di scommessa in scommessa, un operatore della finanza si trovi nell’impaccio di crescenti rischi prossimi a concretizzarsi in perdite, altre transazioni, più complesse possono dissimularlo in qualche modo e consentire di proporne l’acquisto ad altri operatori, o risparmiatori in forme accattivanti. E le inevitabili conseguenze delle sconsiderate iniziative attuate, le pagheranno altri, che avranno acquistato la mela senza sapere – qualche volta magari neanche voler sapere – del baco solerte all'opera al suo interno.
Anche qui la realtà del mercato libero da ogni vincolo contraddice la teoria che lo giustifica come il migliore dei mondi possibili per creare sviluppo.
La teoria enuncia che un libero mercato si qualifica come tale quando vi sono molti operatori, di dimensioni abbastanza simili, comunque non in grado di esercitare influenze dominanti. I beni da loro offerti, così come i relativi prezzi, sono simultaneamente ben conoscibili da parte di chi ne fa domanda, e quindi sono comparabili con efficacia al fine di fare una scelta basata sulla reale convenienza.
Ma queste condizioni non si sono forse mai realizzate del tutto neppure secoli or sono. E in ogni caso sono ben diverse da quelle in cui oggi un risparmiatore si trova ad esercitare una scelta. Difficile, nonostante prodigi come Internet, che si realizzi una comunicazione su termini di contratto e condizioni tale da mettere in grado i risparmiatori di conoscere tutte le prospettive nel tempo del loro investimento, non fosse altro sovente per le complessità da padroneggiare. E' ardua quindi la possibilità per un risparmiatore di operare con semplicità una scelta oculata, e vantaggiosa anche per sé.
Il mercato così concepito non agisce certamente nel migliore interesse di tutti. Il mercato finisce col divorare se stesso. Anziché giocare il suo ruolo al servizio di un più diffuso – e possibilmente non fittizio – benessere e sicurezza, finisce col minare alla fondamenta i suoi presupposti. Un conflitto di interessi tra chi quotidianamente lotta per la sopravvivenza di iniziative economiche materializzate in aziende, o più semplicemente vuol conservare i propri risparmi, e chi, avvantaggiandosi delle rendite di posizione, specula e lucra su finanza, materie prime, e ogni altro possibile eldorado reale o presunto.
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L’intervento, articolato e ampio come non mai, promesso dai governi – ossia dai cittadini – praticamente di tutto il mondo, consentirà probabilmente di evitare che la finanza imploda definitivamente, con conseguenze cui è meglio neppure pensare.
Questa terapia di pronto soccorso stabilizza il malato (già gran cosa), ma non risolve di per sé la causa della malattia che ha quasi portato l’organismo alla sua fine.
L’etica in una azione in campo economico che, pur perseguendo l'interesse di chi la attua, promuove in qualche modo quello di tutta una comunità – oggi veramente quanto mai globale come si è visto in questi giorni – è molto affievolita. La professionalità di molti tra coloro che operano non è più al servizio di una tale etica. Ed è francamente difficile associarsi, anche con la maggiore fede possibile nel genere umano, a quanti ancora immaginano che il mercato, liberamente, sia capace di restituirsela.
Ancora in questi giorni, nel pieno della crisi e ad un passo dal suo diventare irreversibile, la speculazione è stata molto attiva, sia per quanto le norme consentivano, sia anche violandole. Aggravando le tendenze al ribasso, e contribuendo a scatenare il panico dei piccoli risparmiatori che cercavano di salvare il salvabile – rendendo il salvabile sempre più esiguo.
Nel frattempo, negli Stati Uniti e anche in Europa, le organizzazioni meno malate hanno lottato tra loro per accaparrarsi quanto di ancora valido potesse esserci del business delle organizzazioni che non potranno più esistere come entità indipendenti. Ne emergerà un settore finanziario ancora più concentrato e fatto di poche entità di gigantesche dimensioni, che confidano per questo di poter esercitare influenze dominanti.
La nazionalizzazione in alcuni casi può proteggere il piccolo risparmiatore, ma anche essere l'occasione di un grande ricambio di potere che può essere funzionale ad una politica che faccia bene il suo mestiere.
E non è difficile notare che proprio nei mercati dove esistono una normativa e dei controlli meno pervasivi (o che si sono rivelati più facili da violare), come Stati Uniti e Gran Bretagna, si sono prodotti i danni maggiori, enormi.
La risposta per stabilizzare i mercati in via continuativa, e di conseguenza non appesantire la già contrastata congiuntura della economia reale, è evidentemente nella rapida e condivisa definizione e entrata in vigore di un insieme di norme, molto più che in qualsiasi forma di intervento di emergenza.
Condizione necessaria.
Norme precise, ampie e pervasive, che, ad esempio, impediscano ogni azione finalizzata a trarre vantaggio dalla discesa dei mercati senza neppure avervi assunto posizioni – la speculazione allo scoperto, ora solo temporaneamente vietata per un breve periodo.
Così come alzare di molto i versamenti cauzionali per i contratti di futures che oggi consentono di speculare su quantità ingenti di beni impegnando solo una piccola porzione del loro valore. In queste ultime poche settimane, causa la crisi degli operatori che avevano sostenuto la speculazione, i prezzi di molte tra le più importanti materie prime – petrolio, grano… - sono scesi di tutto quanto la speculazione al rialzo li aveva innaturalmente gonfiati negli scorsi mesi, innescando non senza ragione un clima di aspettative negative in tutta l’economia internazionale e di paura e sfiducia tra la gente umile.
In questo scenario da fine del mondo, una nota positiva, molto positiva: il mondo, per scongiurare la sua fine, si è mosso abbastanza assieme per agire in qualche modo nella stessa direzione. Non proprio col massimo della tempestività, non proprio all’unisono, né senza contraddizioni; ma si è confrontato e ha concertato.
Questo è ovviamente una, non la sola, differenza fondamentale rispetto al '29.
Un segnale. Certo, se si prende consapevolezza che il rischio permane, può essere una prima esperienza.
C’è infatti ancora molto da realizzare per estendere in maniera coordinata dei controlli efficaci, travalicando le numerose frontiere nazionali che per le transazioni finanziarie da tempo non sono un ostacolo.
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Nel pieno della crisi, il mercato ha reagito con gran favore alle prime limitazioni all’operatività speculativa temporaneamente introdotte: se paradossalmente limitano proprio l'apparente dogma fondamentale del mercato stesso, ossia la sua assoluta libertà, tendono però a contenerne la sudditanza ad interessi puramente individuali che nel medio periodo ne condizionano le prospettive stesse di sopravvivenza.
La globalizzazione, di fronte ad un pericolo estremo, ha forse consentito con relativa tempestività, passi estremi per evitarne le estreme conseguenze. A livello mondiale, l'interesse privato si è trovato in quel momento perseguibile solo nel quadro di un interesse generale che per una volta non ne era in contrasto.
Resta la necessità che la sempre maggiore concentrazione di interessi in pochi soggetti – ancora cresciuta in questi giorni a colpi di acquisizioni e incorporazioni - davvero possa essere gestita dalla società e dalle sue espressioni politiche attraverso regole che subordinino il generale interesse ad uno sviluppo ordinato e rispettoso. Doveri e diritti di tutti e ciascuno.
È evidente la necessità di un cambiamento. Molte voci concordano sul fatto che non potrà essere sostenibile riprendere una operatività finanziaria così come condotta fino a poco fa.
La razionalità del comportamento economico di un singolo soggetto – il profitto come che sia -, può diventare un atto del tutto irrazionale per il sistema economico nel suo insieme. Per questo una società si dà delle norme di comportamento; chiaramente diverse a seconda del modello di società che si intende sviluppare e raggiungere.
In questi termini si misurerà il reale cambiamento.
In termini di deregolamentazione dell’economia, sarà piuttosto necessario pensare a non lasciare libertà indiscriminata a singoli operatori anche in potenziale lesione dell’interesse pubblico al bene comune. Ma rimuovere piuttosto i vincoli, pagati da tutti i consumatori, che, in diversi ambiti dell’economia reale, determinano barriere alla competizione che dà efficienza.
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È tempo che l’economia torni a se stessa, per non rivoltarsi più contro se stessa.
Chi si occupa di economia in maniera davvero scientifica sa che la sua visione, pure centrata sulla attività propriamente economica dei soggetti, si estende comunque a ricomprendere l’intero scenario della società, le sue dinamiche, le sue aspettative, i suoi valori fondanti.
Tra le cose di cui alcuni economisti parlano da un certo tempo, è che dobbiamo ripensare a un modello di società idoneo a gestire uno scenario di crescita più lenta e più modesta.
Una società dove:
• si cerca la coesione, mediante un potere della politica che sia garanzia per tutti di una tutela di doveri e diritti;
• la qualità della vita non dipende unicamente dal reddito individuale, ma i servizi erogati dallo Stato, a nome della collettività che rappresenta, davvero offrono un uso efficiente ed efficace delle risorse disponibili;
• di fronte al gigantismo delle aziende, le comunità locali possono aggregarsi a riscoprire e sfruttare meglio le risorse di piccole attività economiche di cui dispongono, piuttosto che assistere impotenti alla loro estinzione;
• le persone possono vivere una sobrietà che non è una triste e vessatoria austerity, ma una dimensione non alienata della vita;
• si costruisce prioritariamente sul proprio essere e sulle proprie capacità, piuttosto che su beni di consumo che rispondono più alla promozione dell’ego che a soddisfare bisogni attraverso funzionalità utili;
• le aspettative individuali si perseguono senza la frustrazione di un inestricabile e lacerante conflitto, alimentato continuamente dalle armi di distrazione di massa, tra il desiderabile (reale o presunto) e il possibile, in genere più razionalizzabile, con precisione e ansia.
Anche in uno scenario di macrotendenze e megagruppi economici, riappropriarsi della consapevolezza della propria individuale possibilità e capacità di scelta, è il primo passo per muoversi verso un cambiamento.
A livello globale sono scelte di alto livello. Ma perché si possano realizzare, devono essere innanzitutto scelte che ciascuno può già fare oggi.
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