BRASILE: gli “esclusi” iniziano a fare storia…

Publish date 31-08-2009

by Mauro Palombo


“Dobbiamo oggi essere così intelligenti da cominciare a pensare che la nostra patria è il mondo, e che i problemi di una nazione, non si risolvono lì: molti si riflettono nel mondo e moltissimi, tutti i problemi del mondo, vi si riflettono intensamente.
Se si imposta male un problema, neppure la soluzione può essere efficace.”

 

... a cura di Claudia Graziano e Mauro Palombo

 

 

Padre Clodoveo Piazza, gesuita. Da sempre accanto agli ‘ultimi’, cercando percorsi nuovi ed efficaci per reintegrare la persona in sé stessa, la persona nella società, la società con se stessa. Dal carcere minorile di Torino, alla missione in Brasile, ai ragazzi di strada di Salvador della sua Organização de Auxilio Fraterno, a responsabile della Pastorale del Minore della Diocesi di Salvador da Bahia. Un anno e mezzo fa, lo Stato della Bahia – uno dei 27 Stati della Repubblica Federale del Brasile e il maggiore per estensione – con una legge dà una svolta al proprio orientamento politico, costituendo il “Dicastero per la lotta alla povertà e alle disuguaglianze”, e chiedendo al Padre Piazza di assumerne la responsabilità. Oggi. nel Brasile del Presidente Lula, è un lavoro propulsivo, che si inserisce nella sfida per il piano ‘fame zero’ e per una svolta a livello nazionale. Un grande amico del Sermig, che con entusiasmo da lungo tempo sostiene le sue iniziative. Abbiamo dialogato su questa sua più recente esperienza.
Ci sono gravi contraddizioni, che a un certo punto diventeranno chiave per cambiare il mondo intero. I poveri aumentano. In America Latina nel 1990 si contavano 200 milioni di poveri – persone senza il sufficiente per i loro diritti fondamentali -, di cui 1/3 in miseria. Nel 2000, sebbene il reddito medio degli abitanti sia aumentato, i poveri sono 211 milioni. Mettiamo tutto nelle mani di Dio, ma occorre la responsabilità degli uomini. Vincere la povertà è possibile, ci sono risorse e capacità. È eticamente necessario.

Sei diventato un vero e proprio Ministro: quale bilancio da questa esperienza?
Il bilancio è molto complesso ed estremamente positivo. Innanzitutto stiamo dimostrando che i poveri non sono un problema, i poveri possono anche essere una soluzione per i problemi del mondo. Ci sono poveri da assistere, ma la gran parte sono persone che hanno volontà, capaci di impegno e sacrificio. Vogliono studiare, lavorare, crescere nella loro vita, come ognuno al mondo. Possono produrre benessere non solo per sé e la propria famiglia, ma anche per la propria città, Nazione, per l’America Latina, il mondo. Siamo impegnati per cambiare l’immaginario collettivo di poveri solo come ‘oggetti difficili’: fare che i poveri siano rispettati come persone e visti per le loro potenzialità.

Con quale metodo sta lavorando il Ministero?
E’ una attività nuova, non nasce da un orientamento politico-ideologico, ma solo dal guardare in volto il fratello, per quello che è e per quello che può essere: l’emarginato, l’escluso, smette di esserlo, e inizia a fare storia. E’ un organismo snello, non a sé stante, ma che punta a orientare, coinvolgere, sistematizzare tutte le attività dello Stato. La famiglia è il ‘nucleo strategico’ di intervento: non la persona sola, ma tutto quanto le sta attorno. Ricostituisce la dimensione della comunità. Occorre definire politiche specifiche per tutte le condizioni di povertà. La povertà urbana è diversa da quella nelle campagne, e diversa la povertà urbana nelle zone rurali; c’è la povertà e la grande miseria. Bisogna conoscere per capire; non per fare una teoria, una filosofia, ma per tradurre in una pratica, democratica.

Stiamo attuando programmi dove i poveri sono soggetto del loro sviluppo. La povertà si può combattere in due direzioni: trasferire aiuti incontro a bisogni – borse di alimenti, pensioni, una maggiore istruzione -, e fare che i poveri possano produrre reddito. Nella prima è lo Stato a fare nel limite delle sue possibilità. Ma per generare ricchezza, il soggetto sono i poveri, che devono essere aiutati per essere soggetto, con la loro collaborazione. Se sono ‘oggetto’ di intervento, ci sarà poco ritorno. Alcuni potranno capire, altri non essere pronti, altri addirittura potranno fare delle resistenze perché chiamati ad operare in un modo per cui non erano preparati. Ma se questo riesce, ci sarà un ritorno molto, molto grande.

Tutto nasce da un insieme di programmi. Ad esempio, lavoriamo molto in quelli che chiamiamo i ‘microsettori’, piccole attività semplici dove però decine di migliaia di famiglie si muovono. Lavori non automatizzabili che sono nella capacità immediata del povero – allevare piccoli animali, pescare frutti di mare, coltivare frutta, fiori... Investiamo prima di tutto formando queste persone al lavoro specifico, e dopo dando mezzi di produzione. E’ estremamente interessante perché, ad esempio, con un investimento di 500 dollari, di 1.000 dollari fatto con una famiglia, queste persone hanno aumentato il proprio reddito in modo significativo in pochi mesi. Chi immette capitali per speculazione forse può sognare di guadagnare il 100% all’anno. Nel nostro caso riproduciamo quel capitale che abbiamo investito alle volte in due, tre mesi. L’investimento fatto con i poveri, è un investimento ad alto reddito, assolutamente conveniente.

Da sempre, in Brasile uno dei problemi è quello della terra…
Un tempo la terra veniva poco accatastata e chi registrava un titolo, anche ottenuto irregolarmente, poteva spossessare chi vi lavorava. Siamo partiti circa un anno fa, lavorando con i ‘senza terra’, persone che vivono accampati sulla strada, nell’attesa e speranza di essere “assentati”, insediati, cioè avere un pezzo di terra su cui fabbricare la propria casa e poter vivere la propria vita. Le grandi fattorie della Bahia sono a volte anche pari a intere regioni italiane. I tecnici ne hanno già visitate più di 400 quest’anno, trovandone, almeno 188 espropriabili; aziende agricole totalmente improduttive, terre agricole, non aziende, destinabili a questa riforma agraria; cui anche vi sono proprietari interessati, per potere cedere terra che non usano.

Oggi possiamo offrire questo progetto al nuovo governo federale – che ha competenza per le espropriazioni - che vuole la riforma agraria. Oggi nella Bahia possiamo già “assentare” più di 11.000 famiglie nelle 70 espropriazioni fatte finora. Occorre preparare gli insediamenti, vedendo qual è la vocazione agricola della terra, le infrastrutture necessarie e preparando le persone, perché il contadino è un piccolo imprenditore, ben diverso dal bracciante. Abbiamo anche registrato 46.000 titoli di piccoli e piccolissimi proprietari; così sono certi della proprietà, e eventualmente possono darla in garanzia per un microcredito. Anche questo problema, così grave dal punto di vista umano, può avere soluzione. Dal punto di vista finanziario, dell’organizzazione e della legalità, della messa in pratica; con una certa rapidità.

Essere sacerdote ma avere anche un incarico politico, ministro: come si integrano queste diverse dimensioni?
Il nostro è un incarico abbastanza tecnico, dobbiamo vincere una situazione; la povertà, le disuguaglianze sociali, che significa, in moltissimi casi, anche vincere una ingiustizia sociale. Così come c’è anche povertà che è povertà di fede… Noi siamo stati chiamati per Cristo, non solo a predicare ma anche ad agire e a creare il Regno di Dio, mostrare al mondo che si può essere presenti e che il Regno di Dio è davvero qualcosa di molto concreto.

Quando Cristo si è trovato con un gruppo di persone che avevano fame, che lo avevano accompagnato, non ha detto agli Apostoli andate là nel deserto e pregate Dio che dà da mangiare a queste persone; ha detto: tiratevi su le maniche e andate là e distribuite. E loro: non abbiamo niente, e questo e quell’altro… E Gesù: date da mangiare a queste persone. E’ chiaro che quando noi facciamo tutto il nostro possibile Dio mette la Sua parte, e hanno sfamato, e più di una volta, molti.

Credo che la Chiesa brasiliana, con molto coraggio ha capito che non possiamo solo parlare. E’ una Chiesa viva, che rischia accanto agli uomini. A volte, a tavola, molte persone si fanno il segno della Croce e pregano: Signore fa che tutti abbiano un alimento per nutrirsi. Il Signore dà questo alimento se anche noi ci impegnamo a dare, in prima persona. Io sono al loro fianco; ci sono i vescovi, ci sono altri sacerdoti, religiosi, suore, che addirittura pagando anche con la propria vita, stanno mostrando che il Regno di Dio è presente in questo mondo ed è fatto di un amore soprannaturale, di un amore divino e umano intensissimo, presente, efficace, non solo a parole. Lavorare per gli altri significa comprometterci al di là delle nostre necessità: non possiamo solo dare il nostro superfluo, dobbiamo dare qualche cosa che ci costa dare, dobbiamo dare agli altri quello che hanno bisogno di ricevere, anche se questo ci costa abbastanza.

Certo, i grandi problemi della Bahia, del Brasile, sono problemi di gran parte del mondo…
Quando si parla di adozione internazionale si pensa a quella di un bambino, con i relativi problemi, veri, da rispettare; è un gesto d’amore, ma, è una visione ancora molto molto piccola. Immaginiamo che da qui a pochi anni, avremo tra i 10 e i 30 milioni di bambini abbandonati in Africa, orfani per AIDS. Pensiamo ai problemi dell’immensa ex-Unione Sovietica… Non possiamo certo affrontarli con un’adozione personalizzata di un bambino o di un altro: dobbiamo cominciare a pensare di adottare villaggi, città, nazioni. Perché se non risolviamo questi problemi, diventeranno molto grandi.

Immaginiamo che tutti questi orfani dell’Africa non rimarranno là a morire: chi li può preparare per lavorare, apprendere, avere un’affettività sufficientemente sviluppata per poter essere felici nella vita? Se noi non ci prepariamo ad aiutarli avremo, domani, un problema molto grande da amministrare; non sarà un problema africano. Una soluzione sarà sempre più difficile, perché dovremo risolvere anche i problemi generati dai primi problemi non risolti. E spenderemo solo per difenderci. I popoli non devono doversi trasferire per avere occasioni di vita. Tutti devono poter convivere. Dobbiamo oggi essere così intelligenti da cominciare a pensare che la nostra patria è il mondo, e che i problemi di una nazione, non si risolvono lì: molti si riflettono nel mondo e moltissimi, tutti i problemi del mondo, vi si riflettono intensamente. Se si imposta male un problema, neppure la soluzione può essere efficace. Abbiamo conoscenze che non sono ‘nostre’ e devono essere messe al servizio di tutti; partiamo dai doni immateriali che abbiamo ricevuto, e poi andiamo a quelli materiali. Se si potesse fare capire questo, si creerebbero le condizioni perché, coi passi lenti che la storia dà, il mondo diventasse un luogo di vita felice. C’è qualcosa di divino in questo; vorrei che potessimo scoprirlo e viverlo!
a cura di Mauro Palombo e Claudia Graziano
Nuovo Progetto, agosto-settembre '03

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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