Lence, la samaritana

Publish date 20-06-2019

by Nello Scavo

di Nello Scavo - Cosa c’è dietro conflitti e immigrazione. Parola di inviato

Lence ha compreso che la guerra in Siria era anche affar suo una sera del 2013. Ai rumori della ferrovia ci ha fatto l’abitudine. Il balcone si affaccia sui binari. I convogli passano così vicino che quasi piombano in soggiorno. Quella sera Lence sentì qualcosa di insolito. Passi pesanti di uno, due, dieci persone. Una marcia tra la ghiaia della ferrovia e la polvere dei campi. In silenzio. «Chi mai verrà qui a quest’ora?». Era il primo gruppo di profughi siriani che passava dalla Macedonia.

Lence Zdravkin (foto) è una casalinga di Veles, uno di quei posti che anche Google Maps fatica a trovare e per il quale in apparenza non c’è ragione al mondo che ne giustifichi una sosta. Ma da Veles passa la strada ferrata che risalendo dal confine greco-macedone raggiunge Skopje, poi sessanta chilometri più a Nord risale verso la frontiera serba. «Qui serve dell’acqua, Lence». E lei arriva. «Lence, questo sta male, ha bisogno di un medico». E Lence chiama il medico. «Lence, hai caramelle per i bambini?». E Lence regala dolcetti anche agli adulti. Che lo zucchero fa bene, e poi erano settimane che non mettevano tra i denti qualcosa che dia buon umore.

Quando finalmente la raggiungo per cercare conferme alla leggenda della fatina dei profughi, non ho dubbi che sia lei. «Lence, la samaritana», la chiamano i vicini. «Lence, la santa», assicurano i profughi. «La nuova madre Teresa macedone», per stare alla definizione di alcune organizzazioni governative con cui collabora. È una donna magra, premurosa e di poche parole. Eroina per caso, che riscatta l’immagine di un’Europa chiacchierona e immobile. Da sola ha assistito più di duecentomila migranti. «Non saprei, non tengo il conto». Con decine di loro è rimasta in contatto, costruendo una rete informativa ramificata ed aggiornatissima.

«All’inizio – racconta – offrivo dell’acqua, qualcosa da mangiare, poi se ne andavano ». Dopo, Lence ha deciso che doveva fare di più. «Li facevo accomodare in casa per riposarsi al caldo. Magari per dormire. Non potevo lasciare che i bambini non ricevessero almeno una carezza». Anche il marito l’ha subito appoggiata. Fino a che la pedagogia del buon esempio ha avuto la meglio. I vicini di casa, gli amici, altri abitanti del villaggio di duemila macedoni (per metà cristiani e per metà islamici) ed altri ancora dai centri vicini, hanno trasformato Veles da borgo dimenticato a snodo cruciale.

Dopo anni di assistenza umanitaria organizzata informalmente, Lence conosce meglio di chiunque il diagramma degli afflussi. E dal momento che molti non se la sentono di finire stivati nei vetusti treni di epoca ex jugoslava, da Lence non ha mai smesso di arrivare gente. Lei non fa nulla per scoraggiarli. «Anzi li invito a passarsi il mio numero di telefono e, se vogliono, possono anche contattarmi su Facebook». Niente paura. C’è il ristoratore che provvede alle derrate. Le amiche che aiutano a mettere ordine, i volontari che preparano le tende. E sembra quasi che si preparino a una festa di borgata.

Loro, i profughi, non si fermano. Ormai non hanno scelta. «Siamo campioni di triathlon, ma il pattinaggio artistico non fa per noi», ironizza Nizar, siriano venticinquenne arrivato alla frontiera di Tabanovce, tra Macedonia e Serbia, con un paio di rollerblade appesi allo zaino e una barba che taglierà solo quando potrà baciare la Porta di Brandeburgo. La mette sul ridere. Il nuoto: per non crepare affogati davanti agli scogli della Grecia. La maratona: per raggiungere a piedi la Macedonia. I pattini a rotelle: per restare attaccati all’auto di un improvvisato tassista. I passesur, infatti, massimizzano il profitto non accontentandosi di caricare nell’abitacolo fino a sei persone tra bambini, anziani, disabili e donne.

I giovani più in forze possono aggrapparsi alle maniglie delle portiere restando in equilibrio sui pattini, venduti o messi a noleggio dal medesimo autista che così può arrivare a intascare mille dollari a corsa. Giusto il tempo di aggirare i controlli alla frontiera serba e arrivare il più vicino possibile a una stazione dei bus, da cui la polizia si tiene solitamente a distanza sperando che i migranti si allontanino alla svelta verso la Slovenia, diventata l’imbuto dell’intero esodo. Ma se non fosse per quelli come Lence, per i profughi l’Europa sarebbe solo il filo spinato dei confini e il manganello dei gendarmi.

Nello Scavo
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