Gli amici di Giobbe

Publish date 30-01-2013

by Flaminia Morandi

La disputa fra Giobbe e gli amici I tre amici di Giobbe sono vivi e vegeti al capezzale di ogni malato. Elifaz, Bildad e Zofar sono sempre attuali e alacri nel ricordare a Giobbe che se è malato e afflitto la colpa è solo sua e se ne deve ben rendere conto. Oggi le accuse dei tre amici molesti (che è meglio perdere che trovare) sono le stesse, però ipocritamente mascherate di psicologismo. Chi ha avuto a che fare con i medici lo sa bene: se ti ammali, la colpa è solo tua, perché “non pensi positivo”. Beh, chiunque guardi il mondo con gli occhi del cuore non può non rattristarsi al suo spettacolo e pensare che la follia degli uomini è davvero difficile da sanare: pochi, troppo pochi credono che il senso e la méta della vita sia farsi collaboratore di Dio per costruire un nuovo mondo, che Dio ha bisogno delle nostre mani per la sua opera nella storia. Difficile pensare positivo, anche per chi fermamente crede nella misericordia di Dio.

Certo, un rapporto tra malattia e psiche esiste ed è affermato anche nel Vangelo: l’uomo è un’unità, anche se a tre dimensioni. Ma la lotta contro il male che ci abita è continua e sfiancante e riporta ferite, contusioni, ammaccature e morte. Vicino ad un malato comportarsi come i tre amici di Giobbe significa sottilmente insinuare che chi è vittima è colpevole, che Dio sta dalla parte di chi è sano, di chi è vincente, di chi è fortunato per usare un’espressione che un cristiano non dovrebbe dire mai. Comportarsi come gli amici di Giobbe vuol dire, in una parola, essere dei bestemmiatori.

Forse prima di stare accanto ad un malato meglio sarebbe chiedere a me stesso: sono pronto per farlo? Potrei rischiare di andare gonfio della mia salute, contento del mio benessere, fiero della mia saggezza che si manifesta in frasi di circostanza che nascondono l’orrore che in realtà provo di lui e che lui intuisce benissimo, con la sua speciale sensibilità. Rischio di trasformarmi nel suo aguzzino e di non fare affatto il bene che credevo. Potrei anche essere vittima delle visioni parziali della storia: dire all’amico malato, credendo di consolarlo, che la sua malattia è un privilegio perché lo fa somigliare a Cristo che soffre; che è una purificazione; un modo per acquistare meriti agli occhi di Dio; posso suggerirgli di offrire la sua malattia. Non farei che ripetere affermazioni pie, spesso circolate nella Chiesa; ma appunto in una Chiesa divisa che dopo il XII secolo ha privilegiato l’aspetto giuridico (la teologia della soddisfazione) piuttosto che quello pneumatico, dello Spirito Santo (la teologia della risurrezione).

Dio non è contro l’uomo. Cristo Medico guarisce il malato con l’energia della sua risurrezione. Non accetta sacrifici né olocausti, chiede di vivere nell’amore ogni circostanza, anche quella dolorosa che il malato sta attraversando. Della sua difficoltà è consapevole al punto da identificarsi con lui. Quando guarisce l’emorroissa, Cristo lo fa a prezzo di una forza che esce da Lui, che Lo rende debole a sua volta. Quando guarisce il lebbroso, lo fa a prezzo di vivere il suo stesso isolamento: non può più entrare pubblicamente in città, ma se ne sta fuori, in luoghi deserti (Mc 1,45).
Se visito un malato non ci vado da ricco, ma da povero, da malato, da uomo fragile come la persona stesa sul letto che dipende da tutti, durante la visita anche da me. Non vado a fare una lezione di teologia, ma ad ascoltare lui che è maestro. Non vado a dire parole, ma a riconoscere il significato profondo di una persona a cui mi avvicino umilmente, tentando di trasmettere calore e amore.
La malattia è un atto liturgico con i tempi lunghi della liturgia quaresimale. Anche per uno che crede, la scoperta della malattia è un trauma, un venerdì santo che schiaccia sotto il peso del male.

Anche per uno che crede, la scoperta della malattia è un traumaCi vuole tempo per accettarla: un tempo di lotta, di rivolta, di depressione, durante il quale nessun amico di Giobbe è legittimato a dare lezioni di comportamento. Anche la lotta, Giacobbe insegna, è un modo per stare con Dio, ben accetto a Dio. Poi ci si assesta nella nuova condizione, tentando un nuovo equilibrio, chiedendo con speranza di guarire, perché no? Anche la preghiera di domanda è una forma di relazione in cui si impara a vedersi per quello che siamo: il malato a vedere Dio nel volto di Cristo. Infine la Pasqua, sia che la malattia si risolva sia che porti alla morte. Il cammino sulla strada che porta all’incontro con Dio continua, di qua o di là. Come dice il padre salesiano Xavier Thévenot, il Dio su cui si riposa non è un Dio di tutto riposo. Ma è un Dio che ci chiede insistentemente, con amore infinito, di essere all’altezza della nostra dignità: diventare come Lui.


Flaminia Morandi
NP marzo 2007

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