Che paura!

Publish date 30-01-2013

by Flaminia Morandi

L’amavo troppo, l’ho uccisa, si legge sul giornale. I film di Gabriele Muccino, in fondo, raccontano la stessa storia: l’amore che invece di dare vita diventa gelosia che soffoca, l’amor proprio che si trasforma in affermazione prepotente, il senso di inferiorità che si traduce in panico e ricerca del successo a tutti i costi. Ma quando l’amore è per la morte, è solo un modo per riempire il nulla. L’amore pervertito dalla paura confonde la persona con un oggetto da possedere, nella speranza che la vita che intravediamo nell’altro ci tolga dal cuore quest’angoscia insopportabile.

L’amor proprio deviato dalla paura confonde Dio con l’”io”, nella speranza di salvarsi con l’autodeificazione del nulla. Invece, che strano: più diamo la precedenza alla nostra volontà e ai nostri desideri, più la paura aumenta. La tremenda paura di non farcela. Perché tutte le nostre innumerevoli paure – paura della solitudine, paura degli altri, paura del fallimento, paura delle malattie…- in fondo sono un’unica sola paura, la paura della morte. Ma non della morte fisica, corporale. La morte vera è rinunciare ai propri pregiudizi, è dare ragione all’altro, è abbandonare le piccole sicurezze, è amare anche quando non si è amati. La morte vera è non esistere. Sentirsi insignificanti, scordati, dimenticati. Che paura.

Un tempo c’era un uomo che non aveva paura. Era un uomo dall’animo bambino che viveva in un Eden di armonia. L’unico sentimento del suo cuore era un grande amore per tutto ciò che vedeva intorno a lui. Gli sembrava di intuire la verità di ogni cosa, si sentiva capace di discernere le essenze spirituali di tutti gli esseri viventi: tanto che il Creatore aveva chiesto a lui, proprio a lui, di dare un nome a ciascuno. Nomen omen dicevano gli antichi per dire che nel nome risiede il destino. Il destino di Adamo era dare vita e destino ad ogni creatura. Qualcuno, un giorno, gli aveva parlato della possibilità di avere potere su tutto questo, al pari del Creatore. Gli aveva sussurrato che conoscere il bene e il male è più che amare, dominare è più che rispettare. S’era lasciato convincere: il Nemico è molto abile a far sembrare bene il male, a confonderti con la sinuosità dei suoi pensieri. Per la prima volta Adamo aveva allungato la mano per prendere, invece che per carezzare. Quel gesto rapace e fatale: afferrare. Non sapeva che afferrando un semplice frutto si sarebbe separato bruscamente dal suo destino. Se ne accorse perché immediatamente scoprì di essere nudo e di avere paura.

Aveva scoperto l’”io”. Giocato dall’avidità, separato dal centro della vita, senza più orientamento, si era aggrappato all’unica cosa che sembrava essergli rimasta: se stesso. Ma mentre si ripiegava sul proprio narcisismo, aveva avvertito prepotente il fastidio e la minaccia dell’altro. Suo fratello, così diverso da lui, forse era più amato di lui, forse più bravo. Afferrato dalla paura e dal sospetto (ancora “afferrare”!), Caino aveva proiettato su Abele la propria insopportabile angoscia. Non gli restava che ucciderlo.
Poi aveva trovato altri come lui, spinti dall’angoscia e dalla paura alla folle frenesia del fare. Fare cose grandi che lasciassero traccia di sé, che ricordassero a chi veniva dopo la loro intelligenza, il loro potere, la loro abilità, la loro ricchezza. Insieme avevano costruito l’opera più straordinaria al mondo, una torre alta fino a toccare il cielo, la loro autodeificazione sulla terra. Babele.

Non avrebbe saputo dire perché e come da quelle altezze s’era ritrovato di nuovo in fondo alla propria angoscia. Privo dell’”io”, consapevole per la prima volta del suo nulla. Non avrebbe saputo dire come e perché solo allora, dolce e sottile, si era fatta varco in lui una presenza. Non sapeva come e perché, ma era certo di avere ricevuto una risposta. Ne era certo perché non aveva più paura.


Flaminia Morandi
NP marzo 2003

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