Testimone di speranza nell’inferno

Publish date 27-01-2020

by Redazione Sermig

Elisa Springer (1918-2004), viennese, di religione ebraica per nascita, sopravvissuta al campo di sterminio nazista di Auschwitz, è stata ospite in più occasioni dell’Arsenale della Pace, testimoniando in chiave di speranza la necessità di fare memoria delle atrocità avvenute. Nelle sue parole e nei suoi scritti, un invito a continuare con coraggio la lotta per pace e la giustizia.

«Di solito tutte le favole iniziano con c’era una volta. La mia purtroppo non è una favola, ma inizia ugualmente così: c’era una volta una vita che avrei voluto vivere, ma un uomo di nome Adolf Hitler mi aveva impedito di poterlo fare; poi c’è stata una vita che avrei preferito poter dimenticare, ma non ci sono riuscita. Oggi invece c’è una vita che mi obbliga a ricordare e a far ricordare. Perché sembra che la storia non abbia insegnato proprio nulla: l’uomo continua ad uccidere, le guerre continuano, guerre che secondo me non servono a nulla. Servono solamente a creare tanti altri morti, a spendere miliardi nelle armi, miliardi che potevano invece servire per sfamare tanti poveri bambini e tanta povera gente di tutto il mondo.

Quando nel lontano agosto 1944 sono giunta ad Auschwitz, non avrei mai potuto immaginare che un giorno sarei stata in grado di raccontare la mia storia. Ad Auschwitz ho lasciato la mia gioventù, il mio aspetto fisico, tutte le mie speranze e anche i sentimenti umani, perché era proibito nutrire sentimenti umani. Nel campo gli appelli duravano secondo il tempo atmosferico: se la giornata era bella, sia in estate che in inverno potevano bastare due o tre ore; se invece faceva molto caldo e il sole bruciava, o pioveva forte, o nevicava, l’appello durava dalle 10 alle 12 ore. Questo perché Auschwitz non era un campo di concentramento, era un campo di sterminio dove si faceva di tutto per farci morire Un giorno, durante un lungo appello, soltanto per aver fatto il gesto di sorreggere una mia compagna che stava per svenire in una fila accanto alla mia, l’ufficiale tedesco mi ha chiamato fuori dalla fila, si è assentato per un po’ e poi è tornato con un ferro rovente con il quale, davanti a tutte le compagne, come monito, mi ha fatto una bruciatura nella parte posteriore della coscia destra. Ancora oggi è ben visibile la cicatrice, ma sapete, le ferite del corpo col tempo si cicatrizzano e a volte persino spariscono. Le ferite che non si chiudono mai sono quelle dell’anima, quelle dello spirito. Te le trascini dietro per tutta la vita e probabilmente te le porti anche nella tomba. Ad Auschwitz eravamo diventati soltanto dei numeri, o per meglio dire, dei pezzi. Ogni volta che arrivava un trasporto, parlando tra di loro non dicevano “quante persone sono arrivate oggi”, ma “quanti pezzi sono arrivati oggi”. Eravamo soltanto pezzi che dovevano prima essere svuotati al massimo e poi gettati nella camera a gas.

Molte volte mi si chiede dove era Dio ad Auschwitz. Rispondo che Dio c’è sempre, Dio c’è dappertutto, non dobbiamo prendercela con Dio. Nel cuore di Dio c’è posto per tutti noi, ma oggi bisogna chiedersi nel cuore di quanti di noi c’è ancora posto per lui, per cambiare l’odio in amore. L’odio non serve a nulla, è come un grande fiume che quando straripa trascina con sé lungo il suo percorso tutto quello che incontra e poi l’uomo resta solo, si guarda intorno e si chiede come è potuto accadere. Non è stato Dio che ha abbandonato l’uomo, è stato l’uomo che ha abbandonato Dio e che purtroppo continua a farlo. Quello che è accaduto nei campi di concentramento nazisti accade ancora oggi, anche se in forme diverse. Ci vorrebbe così poco per andare d’accordo tutti. Non bisogna mai odiare! Prima di tutto bisogna saper perdonare. Per poter amare bisogna prima saper perdonare, ricordare che un giorno noi tutti dovremmo essere perdonati. Se non perdoniamo non saremo perdonati nemmeno noi.

Qualche tempo fa, durante un convegno a cui partecipavano anche altri relatori, ero seduta a fianco dell’ambasciatore palestinese. Alla fine della conferenza mi sono alzata e gli ho detto: “Eccellenza per favore mi dia la mano”. Lui si è alzato e non solo mi ha dato la mano, ma mi ha abbracciato, mi ha baciato. In quel momento ho detto: “Vedete, questo vorrei che potessero fare tutti i governanti, tutti i capi di tutto il mondo. Allora si vivrebbe tanto, tanto meglio”. L’ambasciatore si è commosso molto e si è messo anche a piangere. Abbiamo pianto tutti e due a dir la verità. Ci vuole il dialogo, ci vuole la parola, non la violenza. E non bisogna mai dimenticare. Dimenticare significa essere indifferenti e questo purtroppo accade ancora oggi. L’indifferenza è una brutta cosa, non esiste futuro senza il passato.

Il mondo può migliorare, ma dipende da noi ribellarci alle ingiustizie, non disperare, non abbandonarsi, darsi da fare. La mia triste esperienza mi ha insegnato che la vita è il dono più grande che il Signore ci ha fatto, e che la vita va sempre affrontata non perdendo mai la fede in Dio, perché se perdiamo la fede in Dio tutto è finito. Dio ci accompagna sempre».


 



Vorrei che il mio silenzio fosse voce

in un mondo dove tutti gridano,

vorrei che fosse parola per tutte le

vittime innocenti dell'indifferenza.

Caro Ernesto, sia tu che io cerchiamo

di fare cambiare l'odio in amore.

Non è un compito facile

ma per noi è diventato una missione.

Con grande affetto

                             Elisa Springer

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